domenica 25 settembre 2016



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L’Italia dei misteri. Davide Cervia: rapito perchè conosceva bene le tecniche di guerra elettroniche? Un mistero che dura da 26 anni

La storia di Davide Cervia ha inizio  12 settembre 1990, la moglie Marisa Gentile sta aspettando il ritorno  a casa del marito. Un ex ufficiale della Marina esperto di “guerre elettroniche” che si è congedato per restare accanto alla famiglia e adesso lavora come capo reparto presso l’Enertecnel di Ariccia. Il posto di lavoro di Davide è lontano solo pochi chilometri da casa, ma quella sera tarda a rientrare. Da allora del giovane non si saprà più nulla. La sua scomparsa si trasformerà in un giallo che chiama in causa servizi segreti, traffico d’ armi, spie e intrighi internazionali. Perchè Davide Cervia è un esperto di guerre elettroniche e non è un caso che sparisca proprio alla vigilia della prima guerra contro l’ Iraq di Saddam Husseim. Davide Cervia ha solo 30 anni, ma nel suo passato nella marina gli resta una grande esperienza di radar  e intercettatori. Nessuno lo sa, neanche la famiglia . Forse  non gliene aveva parlato per rispetto del vincolo del segreto militare. I carabinieri del comando di Velletri  pensano fin da subito, che Cervia stanco del rapporto coniugale , si  sia allontanato di nascosto per rifarsi una vita con un’ altra donna  Scomparsa volontaria? Se ne è andato con un’altra donna? Una fuga improvvisa avrebbe dovuto lasciare delle tracce.! Marisa ripercorre con la mente la loro vita ma non trova nulla, in otto anni di matrimonio non le ha dato una sola dimostrazione di insincerità. Adora i suoi bambini e non potrebbe mai lasciarli soli. Ma allora?
E’ il padre di Davide che inzia a ricollegare la sparizione del figlio con strani episodi avvenuti nelle settimane precedenti. Macchine guidati da sconosciuti che scelgono il vialetto della loro abitazione per fare manovra. Altri sconosciuti presentatisi come ricercatori con il compito di inventariare il vigneto , poi allontanatesi senza dare spiegazioni. Un incendio all’ impianto elettrico della macchina di Davide. Tutti fatti in sè non eclatanti, ma che potrebbero avere un significato se messi insieme con la misteriosa sparizione.Che non bastano agli inquirenti per smuovere la laro convinzione che Davide si sia assentato volontariamente. Perchè i carabinieri di Velletri non si sono mai indirizzati sulla pista del rapimento per motivi legati alla professionalità del Cervia? Perchè avevano un documento ufficiale della marina in cui spiegava che Cervia era un semplice elettricista, questa informativa  mette una pietra tombale sui sospetti poco credibili della a moglie. Ma a quasi tre mesi dalla scomparsa c’è una svolta. Si presenta a Casa Cervia un uomo che racconta, che a settembre mentre annaffiava il giardino di una villa dove lavorava come custode, ha visto alcune persone spingere in macchiana un uomo, chiudendogli la bocca. Quell’ uomo che cerca di chidere aiuto: è proprio  Davide Cervia .Questa testimonianza dovrebbe essere più che sufficente per smontare la tesi dell’ allontanamento volontario e avvallorare la convinzione della famiglia che la scomparsa di Cervia abbia a che fare con la sua specializzazione militare. Il commando di sequestratori per rapinare l’ inoffensivo tecnico di un azienda elettronica non riesce a far cambiare idea ai carabinieri. Il testimone non ricorda la data esatta dell’ episodio : la colloca in una domenica solo perchè ricorda che in quel giorno c’ era stato in zona, più movimento del solito. In poche parole è inattendibile.
Il 2 gennaio del nuovo anno Marisa riceve un biglietto di auguri che contiene importanti informazioni sul marito. L’ autore del biglietto spiega che dopo il rapimento Davide è stato portato in treno in una località del sud da cui poi , insieme ad altri “agganciati” sarebbe stato avvicinato alla destinazione finale : dovrà essere utilizzato per la manutenzione di apparati bellici ceduti a governi stranieri ai quelli non avrebbero dovuto essere venduti. Marisa si deve rassegnare , questa per lei deve essere una situazione ormai finita”. “Ogni sua ricerca è inutile perchè in ogni caso i risultati saranno vani”. Il misterioso corrispondente conclude indicando a Marisa che deve bruciare il biglietto.  Marisa ubbidisce!
Spaventata si rivolge alla trasmissione Chi ha visto? Le telefonate che arrivano in diretta accrescono i suoi sospetti, due tecnici della marina confermano che persone con la specializzazione di Davide sono una merce molto ambita da molti governi per la manutenzione delle apparecchiature belliche. Non a caso c’è una guerra in corso proprio in quei giorni.  Un’altra circostanza misteriosa è il ritrovamento  misterioso della macchiana di Davide. Arriva in redazione a Chi l’ha visto?  il 1 marzo una lettera anonima, in cui si indica il luogo dove è parcheggiata la macchina, la macchina è a gas e per precauzione vengono chiamati gli arteficieri che toccano tutto senza guanti, quindi nessuna possibilità di ricerca sulle impronte. Chi poteva essere l’anonimo che l’ ha fatta ritrovare? A quale scopo? Un perizia grofologica, promossa dall’ allora senatore Imposimato, ha dimostrato che l’ autore di questa lettera è lo stesso personaggio che per primo, aveva cominciato a scrivere a Marisa dandole dei particolari sul rapimento. Il fatto che fosse al corrente dove era stata abbondanata l’ auto dimostra che era informato di almeno una parte del retroscena della scomparsa. Un particolare che ha senso nella logica del sequestro, non certo quello dell’abbandono spontaneo.  Le idagini sembrano rimbalzare su un muro di gomma. E si scoprono dettagli misteriosi. Dai documenti dell’ex militare spariscono tutti i riferminenti alle sue specializzazioni. Perchè?  La magistratura indaga e nel 1996 un ammiraglio finisce in tribunale, alcune interrogazioni parlamentari chiedono chiarezza. Spuntano i biglietti aerei intestati a Davide Cervia con destinazione il Cairo, ma forse è omonimia. O forse no. Intanto alcuni testimoni credono di averlo visto in Libia. Alla famiglia basta per sperare e ribadire il sospetto del rapimento. Un ipotesi credibile per la procura di Roma, che nel 2001 parla di “scomparsa per rapimento”. Da parte di Ignoti.
Si può sperare che Davide viva ancora, prigioniero di qualche stato Arabo?
La pista libica potrebbe essere la più credibile. Agli atti del procedimento c’è un informativa riservata del Sisme in cui si riferisce che secondo una fonte dei servizi siriani solidamente attendibili, operante a Praga,Il cittadino Davide cervia sarebbe stato rapito da menbri dell’ organizzazione Abu Nidal e condotto in Libia.Davide è sparito ormai da 26 anni, riusciremo mai a sapere se è ancora vivo?
Wilma Ciocci  Alessandra Severi   


L’assassinio di Marta Russo. Ancora un colpevole senza volto. Il caso ai raggi X


La mattina del 9 maggio 1997 alle ore 11.30 la studentessa Marta RussO, ventiduenne, iscritta a  giurisprudenza, viene colpita mortalmente da un proiettile, mentre percorreva con un’amica, Iolanda Ricci, un vialetto dell’università La Sapienza di Roma. Morì quattro giorni dopo in ospedale. Il testimone oculare Andrea Ditta  afferma, fin da subito, di aver sentito un colpo secco, come di un’arma silenziata, proveniente dal bagno di Statistica. Le indagini si concentrano proprio in quel luogo, precisamente sulla finestra del bagno della facoltà di statistica, al piano rialzato. Questa finestra è la più vicina al punto dove è stata colpita la vittima. Sul motivo per cui Marta Russo fu colpita vennero formulate svariate ipotesi: dal gesto folle, all’atto terroristico e al colpo partito accidentalmente. Il fatto che una ragazza fosse stata uccisa  da un colpo da arma da fuoco nel mezzo dell ‘università senza una spiegazione,creò un’ondata di panico anche negli inquirenti, va ricordato  che in quel periodo,tra i docenti erano presenti Parlamentari con la guardie del corpo e scorta. Senza nessun indizio,dal 9 maggio al 20 gli investigatori danno per scontato che il colpo provenisse dal bagno di statistica, la difficoltà di capire chi avesse sparato derivava dal fatto che  quel bagno era accessibile a qualsiasi persona interne o esterna all’università.
Il colpo di scena arriva proprio il 20 maggio, la polizia scientifica reperta  una particella di ferro, bario e antimonio era stata rinvenuta sulla finestra dell’aula assistenti di Filosofia del diritto. ( le perizie in seguito stabiliranno che quella non era una particella di sparo riconducibile al colpo che uccise Marta Russo, affermato persino dalla corte di Cassazione del 6/12/2001) Furono ascoltati e controllati tutti gli alibi di tutti i docenti che vi lavoravano nell’ipotesi che a qualcuno potesse essere partito un colpo. In quei giorni i sospetti si concentrarono su due assistenti: Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Era molto difficile  individuare chi avesse sparato  da un bagno  accessibile da tutti  ma l’ ipotesi che il colpo provenisse dall’ aula assistenti rendeva tutto facile. L’aula era frequentata da pochi studiosi e sia perchè c’era un telefono, dal quale la Dottoranda  Maria Chiara Lipari  aveva chiamato il padre l’ ex senatore Lipari alle 11.44 due minuti dopo il presunto sparo. La Lipari viene interrogata per ore, inizialmente dichiara di aver trovato la stanza vuota, ma miracolosamente   si ricorda  delle presenze  fra cui l ‘usciere Francesco Liparota, la segretaria  Gabriella Alletto e Massimo Mancini, un assistente dell’ istituto con passione delle armi. Che individuò come eventuale sparatore.
 Mancini per sua fortuna aveva un alibi di ferro. La Lipari in seguito ammetterà di aver fatto il suo nome perchè “suggeritole ” dagli inquirenti.
Le piste che potevano essere seguite erano molteplici, infatti la polizia inizialmente indagò seguendo varie direzioni. Nel momento in cui i repertamenti della scientifica dimostrarono che sul davanzale della finestra della Sala 6 c’era un residuo di sparo,  fu facile investire tutte le energie investigative in quella direzione.
Ma  come le perizie d’ufficio disposte dalla Corte hanno dimostrato, sia in primo grado sia in secondo, quel granello di polvere non era un residuo di sparo. A quel punto, però, fu abbandonata la pista alternativa che ipotizzava che il colpo fosse partito dal bagno disabili del pian terreno. E le perizie hanno stabilito che entrambe le finestre, quella del bagno e quella della Sala 6, sono ugualmente compatibili con la traiettoria di sparo. Nel processo d’Appello, uno dei difensori di Scattone, l’avvocato Petrelli, ha ipotizzato che lo sparatore fosse appostato nel bagno disabili del pian terreno e tenesse sotto tiro la porta della ditta di pulizie che affaccia su quel vialetto, probabilmente per sparare contro qualcuno mentre usciva: quello, infatti, era giorno di paga e tutti i dipendenti dovevano passare da lì. Secondo questa ricostruzione, il killer avrebbe sbagliato la mira e colpito accidentalmente Marta Russo. Ma ci sono anche altre ipotesi, tra cui quella di per cui il vero obiettivo poteva essere Iolanda Ricci, la ragazza che camminava con Marta Russo nel vialetto dell’Università. Una settimana dopo il delitto fu proprio il padre della ragazza, alto dirigente del ministero della Giustizia e già direttore del carcere di Rebibbia, a presentarsi alla polizia sostenendo di avere validi motivi per sospettare che la vittima designata fosse la figlia. Spiegò di aver ricevuto a casa numerose telefonate anonime, alcune anche notturne, e in una di queste la voce pronunciava minacce e insulti nei confronti della ragazza (da” Il mistero della Sapienza – il caso Marta Russo” di Giovanni Valentini, Casa Ed. Baldini & Castoldi).
Sarebbero ancora molti gli aspetti da controllare e commentare che ruotano intorno a questo caso, contribuendo a mantenerlo in una fitta nebbia di mistero.
Scattone quando fu condannato gridò in aula “Non è giusto”.
Le parole di Scattone risuonano come echi sulle pagine del Fatto Quotidiano del 10 settembre 2015, data nota per la sua rinuncia alla cattedra di professore.
“Oggi, in ragione di queste polemiche, non ho più la serenità che mi ha contraddistinto nei dieci anni di insegnamento quale supplente: anni caratterizzati da una mia grande soddisfazione anche e soprattutto legata al costruttivo rapporto instauratosi con alunni e genitori. Ed allora se la coscienza mi dice, come mi ha sempre detto, di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati”.
Scattone non smette i panni dell’innocente e lamenta di aver subito un torto: “questo Paese mi toglie anche il fondamentale diritto al lavoro. Dopo la tragedia che mi ha colpito, solo la speranza mi ha dato la forza di andare avanti. Anche oggi vivrò con la speranza che un giorno la parte sana di questo Paese, che pure c’è ed è nei miei tanti ex alunni che in questi giorni mi sono stati vicini e nella gente comune che mi ha manifestato tanta solidarietà, possa divenire maggioranza”.
Alessandra Severi  Wilma Ciocci

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Chi ha ucciso Leonarda Polvani? L’irrisolto delitto di Casalecchio di Reno, nell’hinterland bolognese

La sera del 29 novembre 1983, Leonarda Polvani, ventotto anni, disegnatrice di gioielli, felicemente sposata da un anno con un insegnante di filosofia, due esami alla laurea al Dams di Bologna scompare  sotto casa, a Casalecchio di Reno, nell’hinterland bolognese.  Il marito allarmato,chiama i suoceri, che abitano sullo stesso pianerottolo, per sapere se la ragazza si è fermata da loro, ma così non è. Tante telefonate, a parenti ed amici, ma nessuno ha visto Lea. Quando il marito raggiunge il garage per prendere l’auto ed andarla a cercare, scopre che l’auto della moglie è lì, col motore ancora caldo. Alle 23 chiama i carabinieri per denunciare la scomparsa della moglie,
Quattro giorni dopo, il corpo di Lea viene ritrovato, per caso, da due guardiacaccia che stanno perlustrando la zona: in quei pressi ci sono varie grotte ma una in particolare, quella che è stata chiusa al pubblico perché, oltre ad essere una colonia di pipistrelli, è una delle più  isolate e, quindi, usata dalla malavita per traffico di armi, di droga, perfino di messe nere.
Lea  si trova stesa su pietrisco della cava, a faccia in giù, nuda per metà. Ha il reggiseno e la cannottiera strappati sul davanti e un maglione e un giubbotto sollevati sulla testa,infilati per un solo braccio, e per il resto è nuda. Ha ancora gli orecchini , gli anelli e la fede d’oro. Ha un laccio intorno al collo con il quale hanno tentato di strangolarla , ma è morta perchè le hanno sparato un colpo 6 e 35 a bruciapelo nel cuore.  Che ci fa Lea in quella grotta? Chi l’ ha uccisa ?
Decifrare i motivi della sua scomparsa  e della sua uccisione è un compito difficile. Non un amante, non un nemico.  Nessuna ombra. Ma i colpi di scena non mancano. Dopo poche ore  dal  ritrovamento di Lea, arrivano tre chiamate ai carabinieri. Un uomo ha notato una macchiana ferma davanti la grotta e ricorda la targa e la comunica al carabiniere. L’uomo richiama dopo un ora, nel caso il carabiniere non avesse capito, poi richiama ancora  per aggiungere qualche dettaglio.I carabinieri scoprono che la macchina appartiene  al proprietario di una discoteca, il quale parlando con un carabiniere  aveva già detto di sapere perchè la ragazza era stata uccisa . Era stato per qualcosa che riguardava il lavoro di Lea in gioielleria. Viene interrogato, ma nega tutto. I testimoni della strada dove vive  Lea non lo riconoscono in nessuna delle persone viste quella sera.  Dopo due anni uno spacciatore arrestato per un altro omicidio parla e dice di sapere chi ha ucciso Lea. Fa tre nomi di  pregiudicati della male bolognese implicati nello spaccio di droga: Angelo Alboino, già in carcere in Germania, dove ha trascorso dodici anni, Moreno Pesci e Carmelo Lopes.
Ma l’impianto accusatorio non regge. Lo spacciatore si confonde con un’altra grotta e con un altro omicidio. Lea è sparita in quei 5 metri che la dividono dal garage al cancello di casa, c’è un altra ipotesi che è stata presa in considerazione: che qualcuno le abbia mostrato un tesserino? In quegli anni, a Bologna c‘erano bande appartenenti alle forze dell’ ordine che commettevano rapine. La  gioielleria di Lea ne aveva subita una il mese prima. Potrebbero aver cercato di agganciare la ragazza per farne una basista all’interno,? Peccato che Lea tutto queste cose non le vuol fare, e così  le sparano?! Tornando però alla fine del 1983, gli investigatori escludono la rapina. La donna indossa ancora i gioielli e, a parte la verifica del guardiacaccia, non sembra che la sua borsa sia stata frugata. Che abbia subito una violenza sessuale e che sia stata uccisa forse perché aveva tentato di opporvisi? Forse, ma vestiti scomposti a parte, non sembrano esserci tracce di stupro. Lo conferma l’autopsia. L’ unica certezza, è che Lea è stata uccisa in quella grotta, lo confermano le tracce ematiche e gli oggetti che aveva con sè. Oltre la borsa  un piccolo contenitore con il resto del pranzo e un sacchetto dentro cui c’era una confezione di sei uova che forse aveva comprato sulla via del ritorno.
Chi ha portato lì Lea Polvani, sapeva dove voleva condurla tanto che il lucchetto e il filo spinato che rendevano inaccessibile l’ingresso della grotta  risultano tagliati da un tronchesino comprato da poco, perchè i taglienti non  erano usurati. Lo si capisce dal segno che lasciano, compatibile con l’utensile ritrovato nelle immediate vicinanze. Poi quale sia stata l’esatta dinamica dei fatti non è stato possibile ricostruirla.
 I segni di pneumatici, non consentiranno  di arrivare a un’identificazione e nemmeno a una pista su cui indagare.
Ma allora cosa è successo?
 Le testimonianze di chi abita nel  quartiere di Lea confermano agli investigatori di aver visto nei giorni precedenti la scomparsa una Fiat 128 di colore scuro. Avrebbe stazionato da quelle parti a più riprese e all’interno ci sarebbero stati tre uomini. Il caso resta un enigma, nessun movente, nessuna pista.
Il 1 marzo del 2002 dopo quasi vent’anni è stato riaperto il caso Polvani. Angelo Alboino, stanco e invecchiato, è ritornato in un’ aula di giustizia, dopo anni di carcere in Germania (il dibattimento per l’omicidio Polvani per lui era ancora  aperto e cominciato in ritardo perché  dopo la rapina in terra tedesca, la Germania  aveva preteso che il «pilastrino» scontasse da loro  la pena prima di concedere l’ estradizione),  per rispondere di un delitto del novembre dell’ 83, quello di Leonarda Polvani. Il caso si era risolto con l’assoluzione in appello  degli altri due imputati, Moreno Pesci e Carmelo Lopes, ma la novità è che dopo 18 anni da uno dei delitti più misteriosi di Bologna, che venne considerato uno dei delitti del Dams (per il fatto che la Polvani era stata iscritta all’ istituto universitario di musica e spettacolo) la Corte di Assise di Appello, acconsentendo alle richieste del procuratore generale Ezio Roi, decise  di far effettuare una perizia del Dna sui reperti ancora non distrutti relativi al delitto. La tecnica più moderna dunque si insinuava in un processo che fino ad allora  non era riuscito con gli strumenti classici a fare luce sui moventi e sui responsabili della morte della giovane. Un aiuto dalla scienza e dalla tecnologia per tentare di arrivare là dove si erano dovuti arrendere gli investigatori «tradizionali». L’ analisi veniva assegnata quella stessa mattina dell’ udienza ai  carabinieri del Raggruppamento Investigazioni Scientifiche e effettuata su una corda trovata attorno al collo della Polvani, i suoi vestiti e una tronchese trovata nelle vicinanze del cadavere. Alla prova non si opponevano  gli avvocati Mario Giulio Leone e Manrico Bonetti, che rappresentavano la famiglia della vittima e Gianni Correggiari, che difendeva Alboino e che sosteveva  la sua assoluta innocenza.
Oltre alla prova del Dna i legali delle parti civili avrebbero voluto l’ammissione testimoniale dell’ ex carabiniere Fernando Missere, che venne espulso dall’ Arma dopo essere stato arrestato per avere commesso delle rapine. Missere all’epoca dell’omicidio era entrato in contatto con un certo Pietro Montaquila, che gestiva un locale chiamato Macrillo, nei pressi della Questura. Missere sosteneva che, qualche giorno dopo il delitto, Montaquila lo aveva avvicinato nel locale per dirgli alcune cose relative alla sparizione della Polvani. Montaquila secondo Missere, che a quei tempi era considerato un carabiniere corretto affermò che la sera della morte della Polvani un amico gli aveva riferito di aver visto un’ auto fuori della cava della morte, guidata da un uomo che stranamente assomigliava proprio a lui, a Montaquila. Cioè, Montaquila nel descrivere quell’ uomo descrive in realtà se stesso. Una storia stranissima, ancor più alla luce del fatto che Missere si  rivelò poi  essere in realtà un rapinatore.  (Da Repubblica, marzo 2002) Depistaggi, prove del Dna, rapine, quali gli esiti di questa intricata trama?!
L’esame peritale evidenziò solo tracce di sangue femminile. Sul corpo e sugli oggetti della ragazza, nessun altro Dna.
In un articolo di Paola Cascella uscito su Repubblica il 24 maggio 2002 si legge: «Sapevamo che forse anche l’ ultimo imputato sarebbe stato scagionato. Ma da parti civili abbiamo voluto partecipare al processo come angeli custodi, come tutori della memoria di Leonarda. Noi siamo stati la voce muta di chi non può più dire nulla». C’ è un fondo di tristezza nelle parole dell’ avvocato Mario Giulio Leone che parla anche a nome del collega Manrico Bonetti: l’ omicidio della disegnatrice di gioielli Leonarda Polvani è senza colpevoli. Ieri, dopo 19 anni, anche Angelo Alboino, uno dei protagonisti della malavita bolognese degli anni ’80, è stato assolto. Alboino torna in cella, deve scontare ancora sette anni per varie rapine. Un cumulo di pena che il suo avvocato Gianni Correggiari tenterà di far accorciare con una richiesta di appello tardivo. «Ma non volevamo in carcere un innocente – dice Leone – . Il nostro unico obiettivo è che le motivazioni di questa sentenza recepiscano un principio fondamentale: se c’ è stata una una vittima massacrata, torturata, sovrastata dai suoi assassini quella è Leonarda Polvani, una persona dalla vita semplice, trasparente come una lastra di cristallo. Vogliamo soltanto che i giudici ci diano atto di questo».
Ad oggi nessun colpelvole, nessun sospettato, solo una certezza, Lea Polvani è stata uccisa e nessuno sa ancora il perchè.
Wilma Ciocci   Alessandra Severi 
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Simonetta Cesaroni: il delitto di via Poma giallo ancora irrisolto


 Sono passati 26 anni dall’uccisione di Simonetta Cesaroni, uno dei delitti più famosi e controversi della cronaca italiana. La sera del 7 agosto del 1990, a Roma, in via Poma 2, all’interno dell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, viene trovato il cadavere di Simonetta, 21 anni. ll suo  corpo giace supino,  seminudo,  con   le gambe divaricate, senza mutandine, il reggiseno sollevato, trafitto con 29 colpi di arma bianca al volto, alla gola al tronco e al basso ventre. Sul seno sinistro ha un morso. Per il medico legale non ha subito violenza sessuale. Ad uccidere Simonetta è stato un forte trauma alla testa. Non ci sono segni di scasso alla porta,  o Simonetta conosceva il suo assassino o questi aveva le chiavi.  Nella stanza del delitto viene trovato un foglio con un pupazzetto e una scritta indecifrabile: «Ce dead ok».
Prima di fuggire l’assassino,  porta  via  i pantaloni, gli slip, la borsa e la maglietta di Simonetta e  tenta  di ripulire l’appartamento dal sangue.
Le indagini, condotte dal pm Pietro Catalani che ha affidato alla polizia gli accertamenti, ruotano subito attorno a  due  principali indagati coinvolti nell’omicidio: si trattava di Federico Valle, nipote dell’ingegnere che progettò il palazzo di via Poma e che abitava nello stesso stabile, e Pietrino Vanacore, portiere dello stesso palazzo.
Il 10 agosto  Vanacore viene fermato per una macchia ematica sospetta sui pantaloni ma il Tribunale del Riesame lo scarcera venti giorni dopo: quella macchia non ha nulla a che vedere con il sangue di Simonetta. L’8 ottobre sono noti i risultati dell’autopsia: il volto di Simonetta  presenta sei ferite e diverse ecchimosi; una ferita al collo è passata da parte a parte. Otto i tagli nella zona toracica, quattordici in quella pubico-genitale.La morte è avvenuta tra le 18 e le 18,30.
A chiamare in causa Valle è un testimone austriaco, Roland Voller, che dice di sapere chi e perché ha ucciso Simonetta.Il tedesco rivela alla Polizia che il ragazzo era in via Poma all’ora del delitto e quella sera sarebbe tornato a casa con un braccio sanguinante per una ferita. Il sospetto è che abbia ucciso Simonetta perché la ragazza era l’amante del padre Raniero. Valle sarebbe l’assassino e Vanacore il favoreggiatore che pulisce l’appartamento dopo il delitto e si impossessa degli indumenti per simulare una rapina. Ma il sangue di Federico Valle non corrisponde a quello ritrovato su una porta. Si ipotizza allora che questo sia frutto di una commistione del sangue di Valle e di quella della Cesaroni. Ma l’ipotesi non trova alcun riscontro  scientifico . Come non trova nessun riscontro scientifico la formazione cutanea del Valle sul Braccio che possa far pensare ad un cicatrice da arma da taglio. Il giovane Valle e Vanacore vengono prosciolti (rispettivamente dall’accusa di omicidio e di favoreggiamento) dal gip  Antonio Cappiello il 16 giugno del 1993, provvedimento poi confermato dalla Cassazione il 17 giugno del 1994.
Gli investigatori non si arrendono e nel 2004,  il pm Roberto Cavallone  decide di sottoporre alle analisi dei carabinieri del Ris di Parma , gli indumenti di Simonetta. E dopo 17 anni  arriva il colpo di scena!
Il 6 settembre del 2007 Raniero Busco, all’epoca del delitto fidanzato di Simonetta, viene iscritto sul registro degli indagati per omicidio volontario: stando alle analisi scientifiche, c’è compatibilità tra il suo dna e le tracce biologiche scoperte su corpetto e reggiseno della vittima. L’ iscrizione sul registro degli indagati di Brusco, come si sottolinea in ambiti giudiziari, è un atto dovuto, conseguente  all’ esito del deposito di una consulenza tecnica disposta dalla procura su alcuni reperti.
Ma le nuove tecniche investigative non sono però  in grado  di stabilire a quanto risale quella traccia di saliva. Lo stesso Brusco interrogato all’ epoca dagli investigatori, ammise di aver incontrato Simonetta il giorno prima della sua morte.La ferita trovata sul seno sinistro i Simonetta, non è riconducibile ad un morso. Lo affermano il professor Corrado Cipolla D’ Abruzzo , uno dei consulenti nominati dalla procura e in merito all’ orario della  morte , il perito ha  ribadito che Simonetta era “in vita fino alle 17.45” del 7 agosto.
Durante il processo Pietrino Vanacore si suicida il 9 marzo del 2010, lasciando un biglietto con una scritta “20 anni di sofferenze e di sospetti portano al suicidio” avrebbe dovuto deporre il prossimo 12 marzo a Roma per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, nel quale è imputato Raniero Busco.Su tutti i campioni analizzati, è stato individuato il Dna di Simonetta, sul reggiseno e corpetto c’è presenza di tracce di Dna di Brusco  e di altri due imputati.  Per i Ris di Parma,  Simonetta e Raniero si sarebbero appartati per un incontro sessuale all’ interno dell’appartamento. Brusco morde il seno di Simonetta che reagisce a malo modo. Brusco allora, avrebbe risposto prima con uno schiaffo e poi, in preda ad un raptus  incontrollabile, avrebbe massacrato la fidanzata.
Per  l’ avvocato Paolo Lori  difensore di Brusco definisce  l’impianto accusatorio  molto debole. Ma, il 26 gennaio 2011,  Busco viene condannato a 24 anni di carcere: la procura aveva chiesto l’ergastolo. Il 24 novembre 2011 comincia il processo d’assise d’appello: viene disposta una nuova perizia che smonta le conclusioni dei consulenti della procura. Caso Chiuso?  No. Anche di fronte alla sentenza il caso rimane aperto. Del resto in Italia siamo abitiuati a vedere sentenze che sono state ribaltate nei diversi gradi di giudizio. Il 23 aprile 2012 il sostituto procuratore generale Alberto Cozzella chiede la conferma della sentenza di primo grado e, in subordine, una nuova perizia «che sia degna di tale nome». Il 26 aprile la difesa sollecita l’assoluzione di Busco: «chi ha ucciso Simonetta è un mostro e Busco non lo è». Il 27 aprile,la Corte d’Assise d’Appello assolve Busco per non aver commesso il fatto. Il 26 febbraio 2014, La Corte di Cassazione ha deciso sul delitto di via Poma. Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, non è colpevole: è stato definitivamente assolto dall’accusa dell’omicidio. Il delitto di Simonetta Cesaroni rimane ancora senza colpevole.
Wilma Ciocci  Alessandra Severi 

Il crudele assassinio di Yara Gambirasio


Gli inquirenti solitamente nell’iter delle indagini per omicidio individuano un sospettato e verificano successivamente  se il suo dna può essere compatibile con quello dell’assassino.  In questo caso è avvenuto l’opposto. Inizialmente è stata individuata l’impronta genetica dell’omicida e poi è stata compiuta l’opera di investigazione per scoprire a chi appartenesse quel dna. Il super testimone di questo caso è stato proprio il  dna del soprannominato  “Ignoto 1“.  Il 26 novembre 2010, alle ore 18 e 44  Yara Gambirasio aveva terminato uno dei suoi allenamenti e lasciava  da sola il Centro Sportivo di Brembate di Sopra, in Provincia di Bergamo, che si trovava a pochi minuti a piedi da casa sua.  I genitori, non vedendola tornare, dopo circa un quarto d’ora di attesa, provarono a telefonarle, ma il cellulare era spento. Dopo vari tentativi, denunciarono la scomparsa della ragazzina di Mapello
Le prime indagini sulla scomparsa di Yara Gambirasio si concentrano su un cantiere nei pressi di Mapello, a circa 3 chilometri di distanza dalla palestra da cui era uscita Yara. La zona viene identificata attraverso l’analisi degli ultimi ripetitori a cui si era collegato il suo cellulare. Per le ricerche vengono utilizzati  i cani molecolari  per  trovare possibili tracce.
Yara Gambirasio verrà trovata morta, tre mesi dopo la scomparsa, da un passante  che si trovava nella zona di Chignolo d’Isola.
Per ironia della sorte,  a poche centinaia di metri da quello che era il centro di coordinamento delle ricerche della ragazza. Yara si trovava proprio a soli 300 metri dal Comando di Polizia Locale dell’isola Bergamasca;  quindi le forze dell’ordine e volontari della Protezione Civile avevano setacciato la provincia in cerca della ragazza, perlustrandone aree boschive, montuose, fiumi, mentre il corpo della ginnasta si trovava a poche centinaia di metri da loro.  Gli investigatori, identificano così  il corpo della vittima  che  indossa i resti dei vestiti che aveva la sera della scomparsa. Vengono dunque acquisite le immagini delle telecamere delle ditte che si trovano non lontano dal luogo del ritrovamento e d effettuati i rilevamenti da parte degli E.R.T.  gli Esperti nella ricerca delle tracce sulla scene del crimine.  L’autopsia rileverà moltissime cose sugli ultimi istanti di vita di Yara, confermerà che è stata colpita alla testa e ferita gravemente con un’arma da taglio alla gola, al torace, alla schiena e ai polsi. L’assalitore probabilmente se ne era andato prima che fosse morta e  il decesso è avvenuto meno di un’ora dopo l’esser uscita di palestra.
Il 5 dicembre 2010 con un’operazione di polizia su una nave partita da Genova verso Tangeri (Marocco),  viene arrestato Mohamed Fikri, un piastrellista di origini tunisine sospettato di essere coinvolto nella scomparsa di Yara Gambirasio. L’arresto fu disposto dopo l’analisi di una intercettazione telefonica, in cui Fikri avrebbe detto alla propria ragazza “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io”. Il nastro della telefonata fu in seguito sottoposto ad altre perizie che scoprirono un grave errore di traduzione dall’arabo: Fikri aveva detto “Allah ti prego, fai che risponda”. Il 7 dicembre fu scarcerato, ma le accuse di omicidio e occultamento di cadavere furono ritirate solo nell’inverno del 2013.
Gli esami effettuati postmortem rilevano però anche che il mostro non ha commesso un delitto perfetto. Tagliando gli slip della giovane si è provocato una ferita che ha sanguinato sui tessuti degli indumenti intimi di Yara. Quelle gocce di sangue intrappolate nelle fibre hanno resistito agli agenti atmosferici fino a che gli esperti le hanno “catturate“ riuscendo ad estrarne il dann.
18.000 persone pare si sottoposero  volontariamente al test del dna, finchè in una discoteca fu trovato un  dann simile al ceppo di quello di “Ignoto 1“. Viene ristretto così il cerchio e si risale ad uno zio del ragazzo della discoteca che risponde al nome di Giuseppe Guerinoni. Esaminando il dna  si arriva a supporre che sia proprio  lui il padre dell’assassino di Yara. Ma nessuno dei suoi figli era “Ignoto 1“. Come è possibile?! Il sig.  Guerinoni forse ha figli nati fuori dal matrimonio?! Questa domanda non può essergli fatta perchè il sig. Guerinoni è morto anni prima.
Per confrontare il suo dna con quello di “Ignoto1“ è stata utilizzata residuo di saliva  rimasta su una marca da bollo della patente dell’uomo e la coincidenza tra i dna è risultata essere del 99,87%.
La salma su disposizione dei magistrati è stata riesumata e il dato è sbalordativo 99,99999% di corrispondenza.
Dopo quattro anni di ricerche gli investigatori sono convinti di avere trovato l’amante segreta di Giuseppe Guerinoni, la quale deve avere messo al mondo un suo figlio illegittimo. Un giallo nel giallo che porta al nome di Massimo Giuseppe Bossetti.
Bossetti fu fermato ad un posto di blocco e accettò di sottoporsi all’alcoltest,  con la saliva depositata fu effettuata l’analisi del dna di colui che era già considerato essere l’assassino di Yara.
Wilma Ciocci  Alessandra Severi

Anagni (FR): Caffè Criminale. “Delitti e investigazioni”, un incontro formativo sulla figura e il lavoro del criminologo



Secondo l’art. 220 del Codice di Procedura Penale il magistrato può chiedere la consulenza di un perito “quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” e, come perito di parte nominato dall’avvocato o consulente presso la polizia, oggi è inquadrata legislativamente parlando la figura del criminologo. Non essendoci un albo specifico cui iscriversi, né la visione culturale in Italia per concepire la professione come congiunturale in ogni fase dell’iter procedurale del caso questa professione rischia di essere sottovalutata, sia per quanto attiene il percorso di formazione universitario e post-universitario (Master Post –Laurea o corsi specialistici post-laurea) che per il modus operandi dell’indagine, quando e se, svolta in un assetto interdisciplinare, con una squadra che si coordina al fine di raggiungere lo stesso obiettivo, darebbe, forse, i risultati attesi. Molti “strafalcioni” in Italia, avvengono in seno all’indeterminatezza del corso della giustizia o lungaggine della stessa, tanti altri maturano invece proprio perché non si conoscono le rispettive competenze o al più si affidano a criteri di “impronta privatistica”.
Se la professione del criminologo, fosse al pari delle altre inserita all’interno delle istituzioni, forse, ci si avvarrebbe di una “certezza” più sana e di una sicurezza più consapevole perché incentrata sugli stessi criteri scientifici di ricerca, di indagine oltre che di prevenzione. Con questo spirito, per rendere, dunque, un servizio culturale, l’equipe composta da Davide Cannella, Direttore della Falco Investigazioni di Lucca, dall’Avvocato e Professore Eraldo Stefani, da Wilma Ciocci, Sociologa Criminologa e Alessandra Severi Giurista Criminologa, il giorno 14 Maggio presso il Creative Lab Officina/16 ad Anagni, si terrà “Caffè Criminale -Delitti ed Indagini”: un incontro formativo patrocinato dal Comune di Anagni (FR) e dall’Associazione Amici della Stelle presso il Convitto “Principe di Piemonte, Viale G. Matteotti, 2 dalle ore 17:00 alle ore 19:00.
Si potrà entrare in contatto con i paradigmi di una professione, il criminologo, che suscita fascino in tante persone, legandosi ad un contesto di attenzione “non consapevole”: – In Italia- mi spiega infatti la sociologa criminologa Wilma Ciocci-, si ha un interesse verso questa professione, legato piuttosto all’immagine, che alla sostanza. Dietro questa professione ci sono infatti una serie di passaggi obbligati che insistono sulla formazione, che al pubblico della tv, pronto a schierarsi come se fosse un gioco ogni qualvolta, purtroppo, si arricchisce il panorama criminale, sfuggono – .
Sulla risoluzione a “scommessa”, a mo’ di’ “secondo me è stata lei, o lui, o l’amante, o il padre o la suocera” si avvicina lo spettatore della TV, il cliente dal parrucchiere o al bar e i semplici amici in conversazioni da salotto…
Ignorando di fatto che un’indagine è un complesso e articolato insieme di atti di professionisti che, potendo lavorare in equipe, avrebbero successo non solo nella risoluzione di un fatto criminoso, quanto e soprattutto nell’avanzamento del buon livello di Giustizia, che è anche sociale, quando la formazione va a braccetto con la parola prevenzione del rischio e del crimine. La formazione – ribadisce la Ciocci – è importante altresì per scongiurare il pericolo che la sicurezza in Italia sia associata alla fortuna di essere nati a Parma, al limite, dove si è certi che una buona squadra come il RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) non è fiction ma realtà.
Nadia Lisanti



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L’Italia dei misteri. Pasolini. Il mistero irrisolto della morte


Il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini fu trovato da una donna alle 6,30 del mattino di domenica 2 novembre 1975 in uno spiazzo dell’Idroscalo di Ostia. Pasolini muore di una morte violenta, ucciso da un ragazzo di nome Giuseppe Pelosi detto “il rana” conosciuto al chiosco  di piazza dei Cinquecento a Roma. Pasolini si era fermato per chiedergli un’ informazione e dopo aver scambiato qualche battuta, lo invitò a salire in macchina.Scriverà il Pelosi sul suo libro: Io,  Angelo nero.<< Ci stai a fare un giretto? Ti pagherò per il disturbo>>, << Si ma ancora non ho magnato>>. <<Ti porto al Biondo Tevere>>. <<Per me ajo, ajo e peperoncino. E pure ‘na, birra>>E poi gran corsa fino all’ idroscalo di Ostia. Dove,  stando  a quanto nel voler del tempo  scriverà il Pino,  ecco l’ infilarsi in una strada  sterrata che pian piano si estende  in una gran radura, e il tutto ormai, quasi al buio, pure l’asfalto con le buche, e l’auto bloccata accanto a una rete metallica <<Intorno a noi c’erano delle baracche , e per il buoi intravedevo solo la rete e vaghi contorni , c’era il silenzio >> , scriverà  “il Pino”. << Lui iniziò ad accarezzarmi le gambe, mi sfiorò il pene e si toccava anche il suo. Poi me lo tirò fuori dai pantaloni e….. Omissis… Scesi . Mi s’avvicinò . Provo ad accarezzarmi dietro con le mani , visto che avevo i pantaloni calati… Fatti toccare … Omissis… Già mi ripugna ciò che è successo>>, s’incavolo “il Pino” … << Ma quello non levò le mani lo stesso, e mi sentii premere forte con un bastone…Voleva violentarmi con una mano e ora mi stava picchiando perché non ci stavo. La paura si dissolse e non ci vidi più dalla furia …>> E cosi prese a massacrarlo . Con una tavoletta. In testa. In faccia. Sui genitali. Cazzotti e calci . Finché l’ altro non cascò rantolante … <<Non sapevo che fare … A tentoni trovai la macchina , la misi in moto e ingranai la retromarcia.
Nel buio  passò più volte sul corpo di Pasolini sfigurandolo e uccidendolo. Pelosi   viene arrestato poco dopo e il 26 aprile dell’anno successivo, il tribunale dei minori di Roma lo condanna a nove anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione per omicidio volontario in concorso con ignoti , furto e atti osceni . La sezione per i minorenni della corte d’ Appello di Roma con la sentenza del 4 dicembre 1976 assolve Pelosi dall’accusa di atti osceni conferma la condanna per le altre due imputazioni, ma elimina il riferimento al concorso con ignoti. Il 26 aprile 1979 la corte di Cassazione respinge il ricorso di Pelosi . La sentenza è definitiva.
Omosessuale, provocatore, nostalgico, esplulso dal Pci, accusato falsamente di rapina, narcisista, masochista, odiato,  censurato: Pasolini era tutto questo.
Tutti conoscevano l’omosessualità di Pasolini e sapevano  della sua passione per i giovani sottoproletari, ossimoro vivente del modello piccolo borghese che odiava profondamente. Chi lo conosceva sapeva che l’intellettuale rischiava ogni notte la vita.
Mentre Pelosi è a Rebibbia, gli amici come Oriana Fallaci e molti altri dichiarano apertamente che il delitto Pasolini è puramente politico. Questa tesi sarebbe avvalorata da alcune testimonianze raccolte tra gli abitanti delle baracche vicine, all’ idroscalo di Ostia che non avrebbero visto ma piuttosto sentito la colluttazione tra un gruppo di persone.
Le indagini appaiono agli amici affrettate, quasi a voler nascondere la verità,  del resto, vi sono state, e fin dall’inizio, delle gravi negligenze, ed un articolo sull’Europeo del 21 novembre 1975 illustra chiaramente come la scena del crimine venne inquinata. La polizia, accorsa sul posto verso le sette di mattina, non disperse la folla di curiosi, e non vennero nemmeno indicati i punti esatti dei vari ritrovamenti. La macchina di Pasolini rimase esposta ad una pioggia insistente, e dopo aver svolto le prime indagini venne rottamata. Sul luogo del delitto non giunse nemmeno un medico legale, e sull’adiacente campetto di calcio, che poteva offrire segni di plantari e pneumatici, venne giocata una partita.
Pasolini per i fascisti era un ” Culattone di sinistra”.  Per la sinistra un disfattista. In ogni caso era “la voce insopportabile dell’intelletualità nostrana”.
Aveva ritirato fuori il caso della morte di Enrico Mattei, facendo il nome di Eugenio Cefis (presidente Montedison) come presunto mandante in nome dei servizi segreti italiani e americani per conto delle sette sorelle.
Mentre si svolgono i funerali, comincia la battaglia dei sostenitori del caso politico che avrebbe portato all’eliminazione fisica di un intellettuale scomodo per tutti.
Non piaceva dunque ai politici, ma neppure alla borghesia industriale per le sue lotte contro il consumismo. Era più conservatore dei conservatori quando parlava del futuro dell’Italia, e del suo passato ideale innocente e contadino perduto per sempre. Era stato contro l’aborto, e molti in quegli anni non avevano digerito la sua presa di posizione.
La lotta degli intellettuali vicini a Pier Paolo non produce prove determinanti per cambiare il corso dell’iter giudiziario. Pelosi paga con il carcere. Nel 2005 al Costanzo Show ritratta e dichiara di non essere stato solo quella notte, ma in compagnia di una banda di giovani con l’accento siciliano.
La nuova versione di Pelosi è stata la base per nuove indagini, iniziate ufficialmente nel 2010, grazie anche a una lettera scritta da Walter Veltroni all’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano, nella quale l’ex sindaco di Roma sollecitava la riapertura del caso.Tuttavia, nonostante la presenza di nuovi testimoni e il gran il lavoro condotto dall’avvocato Guido Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini, le novità non sono state ritenute rilevanti e le indagini sono state nuovamente archiviate.
Il Messaggero il giorno 13 aprile 2010 riportava il titolo “riapertura delle indagini per il caso Pier Paolo Pasolini”.
Silvio Parrello, in arte “er pecetto”, è stato ascoltato dal pm  Minisci per più di due ore dopo la convocazione di alcuni giorni  come «persona informata dei fatti». La sua testimonianza era stata già registrata e raccolta dall’avvocato romano Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini. Al pm “er pacetto” ha raccontato quello che nel quartiere si dice da sempre. Vale a dire che subito dopo la morte del poeta, unaAlfa Romeo quasi identica a quella di Pasolini, sarebbe stata portata in una carrozzeria sulla via Portuense. «Era sporca di sangue e di fango, aveva una botta sulla fiancata», ha detto Parrello al magistrato.
“Er pecetto” in passato era stato già sentito dall’allora presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino e dall’avvocato di parte civile Guido Calvi. Questa volta però ha fatto i nomi. Quello del carrozziere, e, in particolare, quello dell’amico dal quale ha raccolto tutte le sue confidenze. E ha anche aggiunto il nome di un altro carrozziere che vedendo l’Alfa in quello stato e collegandola al delitto si era rifiutato di ripararla.  Ad avvalorare la versione è la relazione del perito di parte Faustino Durante. Il primo ad ipotizzare subito dopo l’omicidio che a schiacciare Pasolini fosse stata un’altra auto. Lo sterrato dell’Idroscalo, scriveva il medico-legale, «era costellato di buche profonde, la coppa dell’olio situata a 13 cm dal suolo non recava tracce di strusciature e di urti, cosa che invece doveva avere. Il terminale della marmitta non evidenziava nessun segno di urti se non lateralmente, ma erano segni di vecchie ammaccature, il frontale dell’auto era privo di tracce sia di sangue, sia di capelli, sia di cuoio capelluto».
Visionario Parrello? Nuova pista? La risposta potrebbero darla i reperti conservati in uno scatolone al Museo criminologico di Roma, se analizzati con nuove tecniche investigative. Il pezzo forte è il plantare di una scarpa destra trovato nell’auto di Pasolini. misura 41, «logoro e rovinato, non poteva appartenere certo a qualcuno ricco», indirizza i suoi sospetti Parrello. Un nome entrato e uscito dall’inchiesta, è quello di Johnny Lo Zingaro, al secolo Giuseppe Mastini, claudicante da quando in uno scontro a fuoco fu ferito al piede. Ex ergastolano.
Wilma Ciocci  Alessandra Severi
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Misteri d’Italia. Roma anni ’50. L’omicidio della piccola Annarella

Anna Maria Bracci, chiamata da tutti gli abitanti della borgata romana Primavalle in cui lei abitava, Annarella, era una bambina di dodici anni, forse più minuta rispetto alla sua età, con capelli corti, neri e lucidi, e sotto la  frangia sbarazzina due occhi scuri e profondi.
Viveva con la madre e alcuni fratelli, il padre Riziero Bracci a cui lei era molto affezionata se ne era andato i casa dopo  aver scoperto la relazione della moglie, Marta Fiocchi,  con un altro uomo.
“Papà posso venire con te?!” così   domandava la piccola a Riziero, che lavorava al Teatro dell’Opera, e spesso le permetteva di nascondersi dietro le quinte per assistere agli  spettacoli.
Annarella era più matura delle ragazzine della sua età: aiutava nei lavori domestici, veniva mandata a fare la spesa. Il suo unico sogno era quello di avere da mangiare tutti i giorni, anche un pezzo di pane, perché non c’era speranza di assaporare qualche dolce. Aveva l’innocenza dei ragazzini e l’ingenuità che si possiede quando si è vissuta una vita senza promesse. Ubbidiente, era sveglia e veloce, aveva dovuto imparare presto a cavarsela da sola, perché la madre non riusciva a gestire da sola i figli, la casa, i problemi economici. Nel tardo pomeriggio del 18 febbraio 1950 fu mandata dalla madre e comprare del carbone e a chiedere ad una vicina un goccio d’olio.  Uscì di casa e nessuno la vide più. La polizia non prese sul serio subito la denuncia, ma si  occuparono della sua scomparsa solo  sei giorni dopo, quando le proteste del quartiere si trasformarono in un coro indignato. E fu allora che polizia e carabinieri si mobilitarono cercando Annarella ovunque. Fu solo il 3 marzo che il suo corpo senza vita, senza gonna né mutandine, fu trovato all’interno di un pozzo profondo 13 metri, tra via Torrevecchia e l’attuale via Logoleto. Annarella aveva una profonda ferita da arma da taglio alla testa e portava i segni di una tentata violenza sessuale. Il nonno disse: «Ho sognato che era in un pozzo» e i sospetti si indirizzarono, ma solo per poco, verso di lui. Fu una testimonianza a squarciare il buio delle indagini. Qualcuno rivelò che quella sera Annarella era stata vista in strada, seduta su un muretto, mentre mangiava castagne con Lionello Egidi, amico di famiglia e presunto amante della mamma Marta Fiocchi. Sposato e padre di due figli, lavorava come giardiniere e talvolta aiutava la famiglia di Annarella. Il 24 Febbraio, Lionello Egidi, detto “il biondino“, fu fermato e trattenuto in questura. L’11 Marzo, dopo 15 giorni di carcere, Egidi si dichiarò colpevole.
Una volta arrivato a Regina Coeli, ritrattò però tutte le sue dichiarazioni: aveva confessato il crimine, solo per non essere più picchiato. Picchiato con tanta violenza che quando uscì dal carcere non venne  riconosciuto dai suoi familiari. Al giudice confessò  di aver ucciso la piccola salvo poi ritrattare. «Sono stato costretto a fare quella confessione perché sennò non smettevano di darmi pugni».  Nel processo del 1954, fu assolto per insufficienza di prove. In Appello nel 1955  Egidi venne condannato per l’omicidio di Annarella a ventisei anni ed otto mesi di reclusione, ma nel Gennaio 1957 la Cassazione annullò la condanna ed “il biondino” venne scarcerato. Nel 1954 e nel 1961, molestò due minorenni e scontò alcuni anni di carcere. Nel 1966, fu definitivamente assolto per il delitto di Annarella che rimase senza colpevoli.
 L’impressione sulla gente di Roma fu vivissima e travalicò anche i confini cittadini. Al funerale, a spese del Comune, data l’estrema povertà della famiglia, parteciparono le più alte cariche capitoline: il Prefetto, i più alti dirigenti della polizia ed una nutrita folla proveniente soprattutto dalle periferie della città. Quasi tutti i quotidiani dell’epoca concordarono su una cifra superiore alle centomila persone. La bambina riposa al cimitero del Verano, nella cappella di Raniero Marsili. Una targa, collocata all’esterno della cappella in questione, ricorda a chi legge che tra quelle quattro mura c’è il corpo di una bambina vittima delle perversioni altrui. Luchino Visconti ne trasse un cortometraggio, “Appunti su un fatto di cronaca”, con commento di Vasco Pratolini. Roberto Rossellini ambientò proprio a Primavalle il suo “Europa ’51”, con Ingrid Bergman. Riposa in pace Annarè, piccola vittima senza il colpevole.
Wilma Ciocci
Alessandra Severi


L’Italia dei misteri. Il delitto di Torvajanica. La giovane Wilma Montesi vittima dell’intreccio tra sesso e potere. Il primo grande scandalo del dopoguerra


    
Un giallo macchiato di rosa shocking” così  fu definito dai giornalisti   il ritrovamento del corpo senza vita di Wilma Montesi, giovane e brava ragazza promessa sposa di un poliziotto. Giovedì  9 aprile 1953 la sorella di Wilma, Wanda Montesi, insieme alla madre uscirono per andare a vedere al cinema “La carrozza d’oro” di Jean Renoir. Wilma decise di  rimanere a casa, preferiva così, come disse alla madre e alla sorella.
Ma Wilma quel pomeriggio lasciò l’appartamento di Via Tagliamento a Roma in cui viveva con i fratelli e i genitori e non vi fece più ritorno.
Alle 21,00 di quella stessa sera, i familiari preoccupati perché non era solita andare in giro da sola e per il fatto che non fosse ancora rientrata, il sig. Montesi  insieme a Sergio, il fratello di Wilma, se ne andarono per la città alla ricerca della ragazza. Ma fu tutto inutile, nessuno aveva visto una giovane donne che corrispondesse alla sua  descrizione fisica.
Alle 23.00 Rodolfo Montesi si recò al commissariato di zona  per denunciare la scomparsa della figlia. Sabato Santo  11 aprile 1953 intorno alle 17,00 fu portato in una cella frigorifero dell’Istituto di Medicina il corpo di una donna non identificato perché privo di documenti,  ritrovato sulla spiaggia di Torvajanica. L’autopsia si sarebbe svolta qualche giorno dopo perché  era proprio l’week end i Pasqua e i medici erano in vacanza. Il giornalista Fabrizio Meneghini del quotidiano “Il Messaggero” riuscì in qualche modo a vedere la vittima e dalla descrizione fattane nell’articolo che uscì la domenica di Pasqua il sig. Montesi  si rese conto che poteva trattarsi della sua Wilma.
http://shop.ilmessaggero.it/archivio
Quella stessa mattina insieme al Commissario, i signori Montesi si recarono presso l’Istituto per fare il riconoscimento.
Il corpo di Wilma fu ritrovato seminudo (senza gonna, calze e reggicalze) sulla spiaggia di Torvajanica.
In quell’epoca non esistevano mezzi pubblici che da Roma portassero fino in quell zona. Come avrebbe potuto dunque la signorina Montesi senza auto e senza patente , arrivare su quel tratto di litorale?!
L’esame autoptico fu fatto tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere e con una buona dose di approssimazione  (non fu eseguito l’esame del sangue). La causa del decesso: annegamento, nello stomaco un gelato non digerito, mangiato evidentemente poco prima del decesso. Alcuna spiegazione era data in riferimento alle macchie riportate sul volto. Per escludere che fosse stata vittima di un bruto fu resa pubblica l’illibatezza della vittima. La questura, basandosi sull’autopsia fatta dall’Istituto di Medicina legale, attribuì la morte ad una sincope dovuta ad un pediluvio e conseguente annegamento.
Ipotesi avvalorata dalla testimonianza della signora Rosa Passarelli la quale riferì di aver visto Wilma salire sul trenino Roma Ostia alla stazione della Piramide giovedì pomeriggio alle 17e30.
“Si era seduta proprio davanti a me e si era tolta il cappello, tenendo la borsetta sulle ginocchia…Quando si è in treno e non si ha niente da leggere l’unica cosa che si può fare è osservare i compagni di viaggio. E io ho osservato lei, perché la sua figura , così graziosa e giovane, mi aveva incuriosito. Ho avuto il tempo di notare ogni dettaglio: la borsa di pelle, le scarpe di foggia particolare (così ben descritte negli articoli che ho letto), il maglioncino dolcevita e il giaccone, il giaccone col collo a scialle di quel giallo-verde…una tinta strana, un po’ azzardata, se permette, ma a lei stava bene. Con la sua carnagione e quel colore di capelli…neri corvini, li definirei.”.
Sul perché Wilma si fosse recata ad Ostia aveva risposto Wanda, la sorella, raccontando  che la vittima soffriva di un eczema ad un tallone provocato dalle scarpe nuove, che curava con  la tintura di iodio, ma il prurito non era passato, così qualche giorno prima Wima le aveva chiesto se l’avrebbe accompagnata a Ostia dato che aveva sentito che l’acqua di mare per quel tipo di problemi faceva miracoli.  Quindi per la Questura la donna era caduta in mare mentre faceva un pediluvio ad Ostia, dove era stata vista sul trenino Roma-Ostia. Ma come spiegavano la distanza  da Ostia al luogo del ritrovamento?! Semplice, le correnti marine avevano trasportato il corpo fin lì.
Ma come si può morire per un pediluvio?!
Apparentemente il caso sembrava archiviato, fino all’ottobre di quell’anno, quando il direttore di un settimanale scandalistico Silvano Muto pubblicò un articolo in cui raccontava che Wilma Montesi si trovava nella riserva di caccia del marchese e Democristiano Ugo Montagna, durante un party a base di sesso e alcol, a cui avrebbe anche partecipato Piero Piccioni musicista, figlio del Ministro degli Esteri , un notabile democristiano  favorito nella successione a De Gasperi. I complici, spaventati per le conseguenze dello scandalo, avrebbero trasportato il corpo della ragazza sulla spiaggia e l’avrebbero abbandonato. Le accuse verranno appoggiate da altre due aspiranti attrici , Adriana Bisaccia e Annamaria Moneta Caglio, quest’ultima ex fidanzata del Marchese Montagna . Muto fu subito denunciato  per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.
Moltissimi giornali scrissero in riferimento alla vicenda, fu una vera e propria campagna stampa nazionale tesa alla scoperta della verità.
Il caso Montesi fu il primo spiraglio su quella che di lì a poco, sarà definita la dolce Vita. Fellini raffigurerà simbolicamente la fine di Wilma nel finale del suo capolavoro, con la scena dei giovani bene che intorpiditi dall’ orgia,  guardano sulla spiaggia deserta, il corpo di una misteriosa creatura bianca uscita dal mare. Perchè è cosi importante il caso Montesi? E’ il primo caso legato  ai drammi del sesso , sangue e potere della Repubblica . Se Fanfani ha vinto lo scontro con Piccioni per la successione a De  Gasperi è proprio a questo caso. E se Wilma non fosse Morta? La storia del nostro paese sarebbe stata diversa?
Già nel maggio dello stesso anno un settimanale satirico, “Il merlo giallo”, faceva allusioni forti pubblicando  la vignetta di  un piccione viaggiatore che portava un reggicalze in bocca. La vignetta aveva un’ironia sottile, si riferiva neppure troppo velatamente  all’onorevole Piccioni ed al reggicalze che  mancava a Wilma quando venne ritrovata.
La magistratura romana decise di intervenire pubblicamente, così il procuratore capo, Angelo Sigurani il 24 aprile durante una conferenza stampa disse: “ la morte della Montesi non  chiara. Il caso non è affatto chiuso. Si invita chiunque possa collaborare con la giustizia a presentarsi al magistrato”.
Nel settembre del 1954 arriva il colpo di scena. Piero  Piccione annuncia le dimissioni dalla carica di ministro e dopo due giorni, il figlio viene arrestato con l’accusa di concorso in omicidio colposo e uso di stupefacenti.
Dopo qualche ora, Ugo Montagna si reca spontaneamente a Regina Coeli mentre al ex questore di romano , Saverio Polito, viene notificato un mandato di comparizione con l’accusa di aver sviato le indagini allo scopo di archiviare il caso come semplice incidente. Ma nel processo finale tutti gli accusatori verranno dichiarati innocenti. Il principale imputato Piero Piccioni se la cava, perché la sua innocenza sarà convalidata da un alibi fornito dall ‘attrice Alida Valli all’ epoca dei fatti sua fidanzata. Gli unici condannati restano Silvano Muto e la sua testimone  Adriana Bisaccia. Questa Assoluzione non ha nessuna rilevanza ai fini politici. Ormai  l’antagonista di Fanfani è uscito di scena…
Wilma Montesi resta ancora oggi una vittima senza colpevole.
Alessandra Severi –  Wilma Ciocci   


Omicidi irrisolti. Marco Vannini, il mistero rinchiuso nelle mura domestiche


Marco Vannini, il giovane bagnino di Cerveteri  è rimasto ucciso in seguito a un colpo di pistola mentre si trovava in casa della fidanzata la sera del 18 maggio scorso.
Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina con incarico nei servizi segreti, papà della fidanzata, si è  subito autoaccusato. Ai magistrati  riferisce di una tragica accidentalità avvenuta mentre Marco si trovava nella vasca bagno. Ecco il contenuto del verbale dell’interrogatorio: “Ricordo che la pistola mi stava scivolando e afferrandola con l’indice della mano destra premevo con forza la leva di scatto, il grilletto, provocando l’esplosione di un colpo. Il serbatoio era innestato e vi erano all’interno 12 ulteriori pallottole”..
E’ incredibile che sia un militare a parlare in questi termini, a non saper maneggiare un’arma da fuoco, a non accorgersi che la pistola fosse carica di proiettili.
Le foto della scena del crimine, mostrate dalla trasmissione “Chi l’ha visto?”, evidenziano come  la vasca da bagno fosse perfettamente pulita e non c’è, senza  una sola macchia di sangue né all’interno,  né sui bordi, né sulle mattonelle intorno.
Eppure non è plausibile che un ragazzo ferito da un colpo di pistola non abbia perso sangue: ciò significa che o la scena del delitto è stata attentamente ripulita, oppure la pistola ha sparato in un’altra stanza dell’abitazione.
Non si comprende, poi, come Ciontoli, che è un militare, possa aver pensato che la pistola fosse scarica.
Sulla calibro 9 che ha sparato non sarebbero poi state rinvenute impronte digitali né tracce biologiche; ciò significa che o la pistola dalla quale è partito il colpo è stata perfettamente ripulita o Marco Vannini è stato raggiunto da un proiettile partito da un’altra pistola.
La procura di Civitavecchia ha iscritto formalmente nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario e dolo eventuale: Martina Ciontoli, fidanzata di Marco, il padre di Martina Antonio Ciontoli, Federico Ciontoli, fratello della fidanzata e la madre di Martina, Maria Pezzillo. A giudizio anche Viola Giorgini, fidanzata di Federico, con l’accusa di omissione di soccorso. Secondo l’accusa, a prescindere da chi abbia ferito a morte Vannini, tutti i presenti in casa sono responsabili  della morte di Marco.
L’aspetto più grave della vicenda, riguarda il ritardo con cui sono stati chiamati i soccorsi.
Marco Vannini viene ferito alle 23,20. La prima telefonata al 118 arriva alle 23,40 . Un ritardo, secondo quanto riferito dal Ciontoli, dovuto al fatto che lo stesse preparando per portarlo lui stesso in ospedale.
Al telefono c’è il figlio Federico, che non parla  di ferita da arma da fuoco, e chiude la conversazione dicendo che non c’è  più bisogno dell’ ambulanza.
Passa circa mezz’ora. Alle 24,06 arriva una seconda chiamata al 118.
Questa volta al telefono c’è Ciontoli, e riferisce  di una ferita provocata da un pettine.
Vista la segnalazione, l’ambulanza parte in codice verde, agli infermieri non viene ancora detta la verità.
Il primo che sente parlare di colpo da arma da fuoco è un medico,  ma  ormai  è  l’una di notte.
Marco viene trasportato all’ospedale Gemelli di Roma in elicottero;  ma è troppo tardi. Il ventenne muore alle 3,10 per shock emorragico.
Sono passate quasi 4 ore dal momento del presunto incidente. È gravissimo che un militare abbia del tutto omesso di riferire al 118 che la ferita fosse dovuta all’esplosione di un colpo da arma da fuoco, impedendo, così, un intervento tempestivo dei sanitari.  Gli esiti della perizia medico-legale, disposta dalla procura di Civitavecchia, avrebbe affermato che «una immediata e corretta attivazione dei soccorsi avrebbe evitato, con elevate probabilità, il decesso del paziente».
Sono acora più sconvolgenti, le numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte  nell’immediatezza dei fatti, grazie anche all’impegno del personale della stazione dei carabinieri di Ladispoli, della Compagnia di Civitavecchia e del reparto investigazioni scientifiche di Roma; dimostrerebbero che tutti erano a conoscenza di quanto accaduto quella notte. I Ciontoli omisero però di dire all’operatore Ares che Marco Vannini era stato ferito da un’arma da fuoco.
Nel video mandato in  dalla trasmissione “Chi l’ha visto?” Martina ha appena perduto il suo ragazzo e tuttavia consola il padre, gli accarezza la testa: “E’ andata così eh, mo’ basta…”. Poi piange: “Era destino che morisse”.
La famiglia Ciontoli non dimostra nessun segno di umanità e preoccupazione per la vita del giovane . Tutti gli indagati hanno più volte ripetuto, in sede di interrogatorio, che “è stato un colpo partito per sbaglio” ad uccidere Marco, ma si sono contraddetti a colloquio con gli inquirenti.
Le incongruenze sono tante, ma quello che sconcerta di più è l’ omertosità che porta l’ intera famiglia a mentire subito dopo i fatti , potrebbe svelare una responsabilità di gruppo, che nella storia della Criminologia è legata ad ambienti mafiosi.
ll meccanismo oscuro che regola la famiglia Ciontoli  sembra essere governato dall’impulso primitivo dell’unità famigliare a ogni costo. Contro tutte le regole sociali ed il codice penale e senza nessun  rimorso per avere reso un inferno la vita di altri genitori, tuttora sconvolti dal dolore e dalle assurde dinamiche che  hanno sottratto loro un giovane figlio.
Solo il processo potrà fare chiarezza sui tanti lati oscuri della vicenda.
Wilmaciocci&Alesandra severi