giovedì 6 ottobre 2016

La Ndragheta: le famiglie di San Luca

                                          




San Luca è un paese di 3936 abitanti, alle falde del massiccio dell' Aspromonte è  in guerra da 20 anni. Il piccolo centro della Locride che diede i natali a Corrado Alvaro, uno dei più grandi scrittori del novecento. Dal 1991 è teatro di scontri tra due Clan della ndragheta Calabrese i Pelle - Vottari  - Romeo  e gli Strangio - Nirta, sfociato nel 2007 in Germania nella strage di Duisburg. Una faida iniziata il 14 febbraio del 1991 per un banale  scherzo di Carnevale  e finito, con la morte di due persone. A perdere la vita furono Francesco Strangio e Domenico Nirta  Da allora ogni anno ha portato  le sue vittime. Nel natale del  2006 muore sotto i colpi di Kalashnikov Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta, durante il suo funerale grazie all' intervento delle forze dell'ordine si evitò una sparatoria. Nell' agosto del 2007 arriva la risposta all'omicidio di Maria Strangio, in Germania furono sei le persone a cadere sotto i colpi di mitraglietta sparati da un killer, davanti al ristorante da Bruno,  di proprietà degli Strangio.  
Gli investigatori ipotizzano che prima della strage all' interno del ristorante si sia celebrato un rito d iniziazione, a cerimonia della copiata ,conclusa con con il nuovo accolto, che brucia un immagine sacra, In una delle vittime verrà ritrova 
l' immagine di San Gabriele, patrono della polizia. manette finiscono quattro presunti appartenenti della cosca NIRTA-STRANGIO.
Antonio Pelle, il boss di San Luca, è stato arrestato ieri dalla polizia dopo 5 anni di latitanza iniziata con l'evasione, nel settembre 2011, dall'ospedale di Locri dove era ricoverato,è ritenuto il capo indiscusso della cosca anonima, alleata con quella dei Vottari, ha dato vita alla sanguinosa faida di San Luca, culminata con la strage di Duisburg del ferragosto 2007






                             
                            Rito di inizizione: LA "FAVELLA" DELLA PICCIOTTERIA

Nel quaderno rosso trovato a casa di Cretarola, collaboratore di giustizia, il giuramento per diventare un picciotto è simile ad una cerimonia esoterica in cui si evoca il nome di nostro Signore Gesù Cristo.Nel suo quaderno annoterà anche la filastrocca associata alla copiata, i tre 'ndranghetisti di livello che "garantiscono" per il soggetto che si appresta a ottenere una "carica". Un particolare fin qui non emerso nelle precedenti indagini e che il collaboratore spiegherà in dettaglio ai magistrati: "Ad ogni copiata si accompagna una filastrocca. Detto così è un po' brutto però si accompagna una favella. La favella sarebbe il racconto di come tu hai ricevuto questa dote. Okay?". Quella della picciotteria – il grado più basso di chi entra a far parte di un'organizzazione mafiosa – è ordinatamente appuntata sul suo diario: "Una bella mattina di sabato Santo allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore. Mi dissero di seguirli che l'avrei trovato. Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre del isola della Favignana. Lì sulla mia destra vitti un castello dove c'erano due leoni incatenati a una catena di ventiquattro maglie e con me una venticinque dopo mi accorsi che c'era una scala di marmo fino, finissimo, di ventiquattro gradini e con me una venticinque, in cima a questa scala sulla mia destra trovai tre stanze entrai nella prima e vi trovai un vecchio con la barba era San Michele Arcangelo entrai nella seconda stanza e vi trovai una donna vestita tutta di nero era nostra Santa Sorella Elisabetta entrai nella terza stanza e vi trovai una cassa di noce fina finissima lo aperta e vi trovai un pugnale e lì ho giurato eterna fedeltà al onorata società. Una bella mattina di sabato Santo allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando in aperta campagna dopo aver attraversato montagne colline e pianure mi ritrovai sulla sponda del fiume Giordano lì vitti una barchicella con tre vele a forma di latino dove stavano tre vecchi marinai che con parole d'uomo e d'umiltà mi dissero di seguirli navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare sull'altra sponda del fiume Giordano lì vitti sulla mia destra un albero fiorito di ventiquattro armature e una venticinque con quella che rappresento io. È lì che ho conosciuto l'onore dello sgarro". Una formula carica di elementi simbolici - il 24 e il 25 nel codice della 'ndrangheta sono sempre ricorrenti, spiega ad esempio il collaboratore - che nel tempo ha subìto anche delle variazioni, come il riferimento a San Michele Arcangelo, perché dice Cretarola al pm "dopo che il 29 di settembre voi fate la festa è venuta sostituita con la Madonna di Polsi", ma che conferma che anche lontano dalla Calabria la 'ndrangheta mantiene intatti e inalterati formule e riti tanto per le affiliazioni, come per "battezzare il locale" o "formare la società".



                                     https://www.youtube.com/watch?v=3K7jCCwx-rM

                                                                                                            Wilma&Alessandra

lunedì 3 ottobre 2016

Mostro di Firenze. Un caso unico nella storia criminologica: Pietro Pacciani era un serial killer?




Quello del mostro di Firenze non è solo un caso unico nella storia criminologica italiana, europea e forse mondiale, ma è anche il fallimento dell’applicazione di ogni tecnica investigativa che abbia un richiamo scientifico. Come se ogni mezzo fosse stato utilizzato non per le potenzialità che offriva se non invece per quanto era utile a dimostrare una tesi precostituita. Ci sono otto duplici omicidi firmati da una stessa arma e da medesime cartucce, un modus operandi riscontrabile in ogni delitto che si evolve psicologicamente nella sua efferatezza. L’arco di tempo è di 17 anni, dal 1968 al 1985, con periodi di silenzio variabili e un’accelerazione nel 1981 (due delitti).
Ci sono stati vari sospettati, nel corso degli anni cinque persone sono state indicate come l’assassino, il mostro (Enzo spalletti, francesco vinci, Giovanni mele e Piero Mucciarini, Salvatore Vinci e alla fine Pietro Pacciani). Per il delitto del 1968, invece, un uomo è stato condannato in via definitiva, Stefano Mele marito di Barbara Locci, la prima vittima.
Alcuni personaggi entrati nella vicenda sono stati indicati solo come complici, favoreggiatori. MarioVanni, Giancarlo Lotti e Fernando Pucci sono stati i più famosi fra questi,condannati i primi due, non il terzo, il supertestimone che incastrava i cosiddetti “compagni di merende”.
E qui il caso del mostro di Firenze diventerebbe unico su scala planetaria: non solo 8 duplici omicidi, ma anche fatti in gruppo e, ultima ipotesi investigativa, su commissione.
Pacciani era un delinquente, un assassino, ha abusato delle figlie, ha avuto episodi di violenza nei loro confronti e nei confronti della moglie indicibili, Un mostro perfetto, ma non il mostro di Firenze
Come diciamo nel libro Il flop Criminologico Il caso Pietro Pacciani:“Ben 143 testimoni sono stati sapientemente mossi ed uniti da una geniale strategia giuridica di indizi psicologici (quadro, poster, riviste pornografiche, etc.) e sono serviti a far indossare, sapientemente, un vestito cucito ad arte su Pietro Pacciani.
Il delitto del 1968 non è stato addossato a Pacciani. La ragione processuale è che c’era un colpevole accertato e, quindi, versione ufficiale, avrebbe dovuto aprirsi l’iter della revisione processuale. Ma la questione è un’altra: il delitto del 1968 ha tutta l’aria di un premeditato. Dove più persone partecipano, il movente sembra essere la gelosia nei confronti di Barbara Locci.
L’arma usata non fu mai trovata e risulta essere poi quella utilizzata dal mostro. Se ne può ipotizzare il passaggio? Con le scatole di cartucce? Un’arma che ha compiuto un delitto da ergastolo chi la dà a qualcun altro? Questo se hai tempo è un elemento interessante. Ronald e Stephen Holmes (1996), distinguono sei tipologie di autori di reato seriale:
il Visionario o psicotico, che uccide ubbidendo a voci e visioni che sembrano guidarlo;
il Missionario per il quale l’assassinio fa parte di una missione di ripulitura del mondo dai soggetti appartenenti a determinate categorie come prostitute, gay, preti, ad esempio;
l’Edonista per il quale l’omicidio stesso è fonte di gratificazione sessuale;
il Sadico sessuale cioè colui che riceve soddisfazione sessuale dall’infliggere di torture e atti di crudeltà alle vittime;
il Terrorizzatore il quale ricava piacere dalla pura inflizione di torture, anche non sessuali alle vittime;
il Dominatore il quale riceve gratitudine sessuale dalla completa sottomissione della vittima.
Solo il visionario non seleziona una vittima con determinate caratteristiche, essendo unicamente motivato dalle sue visioni e voci interne; gli atti di tortura e di umiliazione sessuale appartengono maggiormente alle tipologie del sadico, del terrorizzatore e del dominatore: si noti come in questi casi, l’utilizzazione della tortura e di metodi cruenti avviene spesso per ottenere un orgasmo che non riesce a raggiungere in nessun altro modo. I serial killer traggono, infatti, un’eccitante esperienza sessuale dal terrore che provocano alle vittime, dal potere assoluto che esercitano su di loro. L’assassino seriale sceglie vittime sconosciute, soggetti anonimi, sui quali poter riversare le proprie fantasie, per poter raggiungere ciò che più hanno a cuore: l’orgasmo derivato dal potere assoluto sulla vittima, oggetto del desiderio a lungo fantasticato che va oltre il mero appagamento sessuale.
Accusatori non attendibili.
Di chi ci fidiamo? Di 4 persone con problemi psichici! Dov’è al prova regina? Abbiamo solo indizi.
Pacciani andava a procacciare feticci insieme ad amici?
No, viene meno la pulsione del serial killer.
Gli inquirenti dovevano trovare il mostro; Pacciani era il mostro perfetto.
La criminologia fa un passo avanti come scienza, si confronta con qualcosa unico nel genere.
Stiamo parlando di un vero serial killer c’è la sua firma, l’escalation dei delitti e il vilipendio.




Le criminologhe WilmaCiocci&AlessandraSeveri

domenica 25 settembre 2016



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L’Italia dei misteri. Davide Cervia: rapito perchè conosceva bene le tecniche di guerra elettroniche? Un mistero che dura da 26 anni

La storia di Davide Cervia ha inizio  12 settembre 1990, la moglie Marisa Gentile sta aspettando il ritorno  a casa del marito. Un ex ufficiale della Marina esperto di “guerre elettroniche” che si è congedato per restare accanto alla famiglia e adesso lavora come capo reparto presso l’Enertecnel di Ariccia. Il posto di lavoro di Davide è lontano solo pochi chilometri da casa, ma quella sera tarda a rientrare. Da allora del giovane non si saprà più nulla. La sua scomparsa si trasformerà in un giallo che chiama in causa servizi segreti, traffico d’ armi, spie e intrighi internazionali. Perchè Davide Cervia è un esperto di guerre elettroniche e non è un caso che sparisca proprio alla vigilia della prima guerra contro l’ Iraq di Saddam Husseim. Davide Cervia ha solo 30 anni, ma nel suo passato nella marina gli resta una grande esperienza di radar  e intercettatori. Nessuno lo sa, neanche la famiglia . Forse  non gliene aveva parlato per rispetto del vincolo del segreto militare. I carabinieri del comando di Velletri  pensano fin da subito, che Cervia stanco del rapporto coniugale , si  sia allontanato di nascosto per rifarsi una vita con un’ altra donna  Scomparsa volontaria? Se ne è andato con un’altra donna? Una fuga improvvisa avrebbe dovuto lasciare delle tracce.! Marisa ripercorre con la mente la loro vita ma non trova nulla, in otto anni di matrimonio non le ha dato una sola dimostrazione di insincerità. Adora i suoi bambini e non potrebbe mai lasciarli soli. Ma allora?
E’ il padre di Davide che inzia a ricollegare la sparizione del figlio con strani episodi avvenuti nelle settimane precedenti. Macchine guidati da sconosciuti che scelgono il vialetto della loro abitazione per fare manovra. Altri sconosciuti presentatisi come ricercatori con il compito di inventariare il vigneto , poi allontanatesi senza dare spiegazioni. Un incendio all’ impianto elettrico della macchina di Davide. Tutti fatti in sè non eclatanti, ma che potrebbero avere un significato se messi insieme con la misteriosa sparizione.Che non bastano agli inquirenti per smuovere la laro convinzione che Davide si sia assentato volontariamente. Perchè i carabinieri di Velletri non si sono mai indirizzati sulla pista del rapimento per motivi legati alla professionalità del Cervia? Perchè avevano un documento ufficiale della marina in cui spiegava che Cervia era un semplice elettricista, questa informativa  mette una pietra tombale sui sospetti poco credibili della a moglie. Ma a quasi tre mesi dalla scomparsa c’è una svolta. Si presenta a Casa Cervia un uomo che racconta, che a settembre mentre annaffiava il giardino di una villa dove lavorava come custode, ha visto alcune persone spingere in macchiana un uomo, chiudendogli la bocca. Quell’ uomo che cerca di chidere aiuto: è proprio  Davide Cervia .Questa testimonianza dovrebbe essere più che sufficente per smontare la tesi dell’ allontanamento volontario e avvallorare la convinzione della famiglia che la scomparsa di Cervia abbia a che fare con la sua specializzazione militare. Il commando di sequestratori per rapinare l’ inoffensivo tecnico di un azienda elettronica non riesce a far cambiare idea ai carabinieri. Il testimone non ricorda la data esatta dell’ episodio : la colloca in una domenica solo perchè ricorda che in quel giorno c’ era stato in zona, più movimento del solito. In poche parole è inattendibile.
Il 2 gennaio del nuovo anno Marisa riceve un biglietto di auguri che contiene importanti informazioni sul marito. L’ autore del biglietto spiega che dopo il rapimento Davide è stato portato in treno in una località del sud da cui poi , insieme ad altri “agganciati” sarebbe stato avvicinato alla destinazione finale : dovrà essere utilizzato per la manutenzione di apparati bellici ceduti a governi stranieri ai quelli non avrebbero dovuto essere venduti. Marisa si deve rassegnare , questa per lei deve essere una situazione ormai finita”. “Ogni sua ricerca è inutile perchè in ogni caso i risultati saranno vani”. Il misterioso corrispondente conclude indicando a Marisa che deve bruciare il biglietto.  Marisa ubbidisce!
Spaventata si rivolge alla trasmissione Chi ha visto? Le telefonate che arrivano in diretta accrescono i suoi sospetti, due tecnici della marina confermano che persone con la specializzazione di Davide sono una merce molto ambita da molti governi per la manutenzione delle apparecchiature belliche. Non a caso c’è una guerra in corso proprio in quei giorni.  Un’altra circostanza misteriosa è il ritrovamento  misterioso della macchiana di Davide. Arriva in redazione a Chi l’ha visto?  il 1 marzo una lettera anonima, in cui si indica il luogo dove è parcheggiata la macchina, la macchina è a gas e per precauzione vengono chiamati gli arteficieri che toccano tutto senza guanti, quindi nessuna possibilità di ricerca sulle impronte. Chi poteva essere l’anonimo che l’ ha fatta ritrovare? A quale scopo? Un perizia grofologica, promossa dall’ allora senatore Imposimato, ha dimostrato che l’ autore di questa lettera è lo stesso personaggio che per primo, aveva cominciato a scrivere a Marisa dandole dei particolari sul rapimento. Il fatto che fosse al corrente dove era stata abbondanata l’ auto dimostra che era informato di almeno una parte del retroscena della scomparsa. Un particolare che ha senso nella logica del sequestro, non certo quello dell’abbandono spontaneo.  Le idagini sembrano rimbalzare su un muro di gomma. E si scoprono dettagli misteriosi. Dai documenti dell’ex militare spariscono tutti i riferminenti alle sue specializzazioni. Perchè?  La magistratura indaga e nel 1996 un ammiraglio finisce in tribunale, alcune interrogazioni parlamentari chiedono chiarezza. Spuntano i biglietti aerei intestati a Davide Cervia con destinazione il Cairo, ma forse è omonimia. O forse no. Intanto alcuni testimoni credono di averlo visto in Libia. Alla famiglia basta per sperare e ribadire il sospetto del rapimento. Un ipotesi credibile per la procura di Roma, che nel 2001 parla di “scomparsa per rapimento”. Da parte di Ignoti.
Si può sperare che Davide viva ancora, prigioniero di qualche stato Arabo?
La pista libica potrebbe essere la più credibile. Agli atti del procedimento c’è un informativa riservata del Sisme in cui si riferisce che secondo una fonte dei servizi siriani solidamente attendibili, operante a Praga,Il cittadino Davide cervia sarebbe stato rapito da menbri dell’ organizzazione Abu Nidal e condotto in Libia.Davide è sparito ormai da 26 anni, riusciremo mai a sapere se è ancora vivo?
Wilma Ciocci  Alessandra Severi   


L’assassinio di Marta Russo. Ancora un colpevole senza volto. Il caso ai raggi X


La mattina del 9 maggio 1997 alle ore 11.30 la studentessa Marta RussO, ventiduenne, iscritta a  giurisprudenza, viene colpita mortalmente da un proiettile, mentre percorreva con un’amica, Iolanda Ricci, un vialetto dell’università La Sapienza di Roma. Morì quattro giorni dopo in ospedale. Il testimone oculare Andrea Ditta  afferma, fin da subito, di aver sentito un colpo secco, come di un’arma silenziata, proveniente dal bagno di Statistica. Le indagini si concentrano proprio in quel luogo, precisamente sulla finestra del bagno della facoltà di statistica, al piano rialzato. Questa finestra è la più vicina al punto dove è stata colpita la vittima. Sul motivo per cui Marta Russo fu colpita vennero formulate svariate ipotesi: dal gesto folle, all’atto terroristico e al colpo partito accidentalmente. Il fatto che una ragazza fosse stata uccisa  da un colpo da arma da fuoco nel mezzo dell ‘università senza una spiegazione,creò un’ondata di panico anche negli inquirenti, va ricordato  che in quel periodo,tra i docenti erano presenti Parlamentari con la guardie del corpo e scorta. Senza nessun indizio,dal 9 maggio al 20 gli investigatori danno per scontato che il colpo provenisse dal bagno di statistica, la difficoltà di capire chi avesse sparato derivava dal fatto che  quel bagno era accessibile a qualsiasi persona interne o esterna all’università.
Il colpo di scena arriva proprio il 20 maggio, la polizia scientifica reperta  una particella di ferro, bario e antimonio era stata rinvenuta sulla finestra dell’aula assistenti di Filosofia del diritto. ( le perizie in seguito stabiliranno che quella non era una particella di sparo riconducibile al colpo che uccise Marta Russo, affermato persino dalla corte di Cassazione del 6/12/2001) Furono ascoltati e controllati tutti gli alibi di tutti i docenti che vi lavoravano nell’ipotesi che a qualcuno potesse essere partito un colpo. In quei giorni i sospetti si concentrarono su due assistenti: Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Era molto difficile  individuare chi avesse sparato  da un bagno  accessibile da tutti  ma l’ ipotesi che il colpo provenisse dall’ aula assistenti rendeva tutto facile. L’aula era frequentata da pochi studiosi e sia perchè c’era un telefono, dal quale la Dottoranda  Maria Chiara Lipari  aveva chiamato il padre l’ ex senatore Lipari alle 11.44 due minuti dopo il presunto sparo. La Lipari viene interrogata per ore, inizialmente dichiara di aver trovato la stanza vuota, ma miracolosamente   si ricorda  delle presenze  fra cui l ‘usciere Francesco Liparota, la segretaria  Gabriella Alletto e Massimo Mancini, un assistente dell’ istituto con passione delle armi. Che individuò come eventuale sparatore.
 Mancini per sua fortuna aveva un alibi di ferro. La Lipari in seguito ammetterà di aver fatto il suo nome perchè “suggeritole ” dagli inquirenti.
Le piste che potevano essere seguite erano molteplici, infatti la polizia inizialmente indagò seguendo varie direzioni. Nel momento in cui i repertamenti della scientifica dimostrarono che sul davanzale della finestra della Sala 6 c’era un residuo di sparo,  fu facile investire tutte le energie investigative in quella direzione.
Ma  come le perizie d’ufficio disposte dalla Corte hanno dimostrato, sia in primo grado sia in secondo, quel granello di polvere non era un residuo di sparo. A quel punto, però, fu abbandonata la pista alternativa che ipotizzava che il colpo fosse partito dal bagno disabili del pian terreno. E le perizie hanno stabilito che entrambe le finestre, quella del bagno e quella della Sala 6, sono ugualmente compatibili con la traiettoria di sparo. Nel processo d’Appello, uno dei difensori di Scattone, l’avvocato Petrelli, ha ipotizzato che lo sparatore fosse appostato nel bagno disabili del pian terreno e tenesse sotto tiro la porta della ditta di pulizie che affaccia su quel vialetto, probabilmente per sparare contro qualcuno mentre usciva: quello, infatti, era giorno di paga e tutti i dipendenti dovevano passare da lì. Secondo questa ricostruzione, il killer avrebbe sbagliato la mira e colpito accidentalmente Marta Russo. Ma ci sono anche altre ipotesi, tra cui quella di per cui il vero obiettivo poteva essere Iolanda Ricci, la ragazza che camminava con Marta Russo nel vialetto dell’Università. Una settimana dopo il delitto fu proprio il padre della ragazza, alto dirigente del ministero della Giustizia e già direttore del carcere di Rebibbia, a presentarsi alla polizia sostenendo di avere validi motivi per sospettare che la vittima designata fosse la figlia. Spiegò di aver ricevuto a casa numerose telefonate anonime, alcune anche notturne, e in una di queste la voce pronunciava minacce e insulti nei confronti della ragazza (da” Il mistero della Sapienza – il caso Marta Russo” di Giovanni Valentini, Casa Ed. Baldini & Castoldi).
Sarebbero ancora molti gli aspetti da controllare e commentare che ruotano intorno a questo caso, contribuendo a mantenerlo in una fitta nebbia di mistero.
Scattone quando fu condannato gridò in aula “Non è giusto”.
Le parole di Scattone risuonano come echi sulle pagine del Fatto Quotidiano del 10 settembre 2015, data nota per la sua rinuncia alla cattedra di professore.
“Oggi, in ragione di queste polemiche, non ho più la serenità che mi ha contraddistinto nei dieci anni di insegnamento quale supplente: anni caratterizzati da una mia grande soddisfazione anche e soprattutto legata al costruttivo rapporto instauratosi con alunni e genitori. Ed allora se la coscienza mi dice, come mi ha sempre detto, di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati”.
Scattone non smette i panni dell’innocente e lamenta di aver subito un torto: “questo Paese mi toglie anche il fondamentale diritto al lavoro. Dopo la tragedia che mi ha colpito, solo la speranza mi ha dato la forza di andare avanti. Anche oggi vivrò con la speranza che un giorno la parte sana di questo Paese, che pure c’è ed è nei miei tanti ex alunni che in questi giorni mi sono stati vicini e nella gente comune che mi ha manifestato tanta solidarietà, possa divenire maggioranza”.
Alessandra Severi  Wilma Ciocci

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Chi ha ucciso Leonarda Polvani? L’irrisolto delitto di Casalecchio di Reno, nell’hinterland bolognese

La sera del 29 novembre 1983, Leonarda Polvani, ventotto anni, disegnatrice di gioielli, felicemente sposata da un anno con un insegnante di filosofia, due esami alla laurea al Dams di Bologna scompare  sotto casa, a Casalecchio di Reno, nell’hinterland bolognese.  Il marito allarmato,chiama i suoceri, che abitano sullo stesso pianerottolo, per sapere se la ragazza si è fermata da loro, ma così non è. Tante telefonate, a parenti ed amici, ma nessuno ha visto Lea. Quando il marito raggiunge il garage per prendere l’auto ed andarla a cercare, scopre che l’auto della moglie è lì, col motore ancora caldo. Alle 23 chiama i carabinieri per denunciare la scomparsa della moglie,
Quattro giorni dopo, il corpo di Lea viene ritrovato, per caso, da due guardiacaccia che stanno perlustrando la zona: in quei pressi ci sono varie grotte ma una in particolare, quella che è stata chiusa al pubblico perché, oltre ad essere una colonia di pipistrelli, è una delle più  isolate e, quindi, usata dalla malavita per traffico di armi, di droga, perfino di messe nere.
Lea  si trova stesa su pietrisco della cava, a faccia in giù, nuda per metà. Ha il reggiseno e la cannottiera strappati sul davanti e un maglione e un giubbotto sollevati sulla testa,infilati per un solo braccio, e per il resto è nuda. Ha ancora gli orecchini , gli anelli e la fede d’oro. Ha un laccio intorno al collo con il quale hanno tentato di strangolarla , ma è morta perchè le hanno sparato un colpo 6 e 35 a bruciapelo nel cuore.  Che ci fa Lea in quella grotta? Chi l’ ha uccisa ?
Decifrare i motivi della sua scomparsa  e della sua uccisione è un compito difficile. Non un amante, non un nemico.  Nessuna ombra. Ma i colpi di scena non mancano. Dopo poche ore  dal  ritrovamento di Lea, arrivano tre chiamate ai carabinieri. Un uomo ha notato una macchiana ferma davanti la grotta e ricorda la targa e la comunica al carabiniere. L’uomo richiama dopo un ora, nel caso il carabiniere non avesse capito, poi richiama ancora  per aggiungere qualche dettaglio.I carabinieri scoprono che la macchina appartiene  al proprietario di una discoteca, il quale parlando con un carabiniere  aveva già detto di sapere perchè la ragazza era stata uccisa . Era stato per qualcosa che riguardava il lavoro di Lea in gioielleria. Viene interrogato, ma nega tutto. I testimoni della strada dove vive  Lea non lo riconoscono in nessuna delle persone viste quella sera.  Dopo due anni uno spacciatore arrestato per un altro omicidio parla e dice di sapere chi ha ucciso Lea. Fa tre nomi di  pregiudicati della male bolognese implicati nello spaccio di droga: Angelo Alboino, già in carcere in Germania, dove ha trascorso dodici anni, Moreno Pesci e Carmelo Lopes.
Ma l’impianto accusatorio non regge. Lo spacciatore si confonde con un’altra grotta e con un altro omicidio. Lea è sparita in quei 5 metri che la dividono dal garage al cancello di casa, c’è un altra ipotesi che è stata presa in considerazione: che qualcuno le abbia mostrato un tesserino? In quegli anni, a Bologna c‘erano bande appartenenti alle forze dell’ ordine che commettevano rapine. La  gioielleria di Lea ne aveva subita una il mese prima. Potrebbero aver cercato di agganciare la ragazza per farne una basista all’interno,? Peccato che Lea tutto queste cose non le vuol fare, e così  le sparano?! Tornando però alla fine del 1983, gli investigatori escludono la rapina. La donna indossa ancora i gioielli e, a parte la verifica del guardiacaccia, non sembra che la sua borsa sia stata frugata. Che abbia subito una violenza sessuale e che sia stata uccisa forse perché aveva tentato di opporvisi? Forse, ma vestiti scomposti a parte, non sembrano esserci tracce di stupro. Lo conferma l’autopsia. L’ unica certezza, è che Lea è stata uccisa in quella grotta, lo confermano le tracce ematiche e gli oggetti che aveva con sè. Oltre la borsa  un piccolo contenitore con il resto del pranzo e un sacchetto dentro cui c’era una confezione di sei uova che forse aveva comprato sulla via del ritorno.
Chi ha portato lì Lea Polvani, sapeva dove voleva condurla tanto che il lucchetto e il filo spinato che rendevano inaccessibile l’ingresso della grotta  risultano tagliati da un tronchesino comprato da poco, perchè i taglienti non  erano usurati. Lo si capisce dal segno che lasciano, compatibile con l’utensile ritrovato nelle immediate vicinanze. Poi quale sia stata l’esatta dinamica dei fatti non è stato possibile ricostruirla.
 I segni di pneumatici, non consentiranno  di arrivare a un’identificazione e nemmeno a una pista su cui indagare.
Ma allora cosa è successo?
 Le testimonianze di chi abita nel  quartiere di Lea confermano agli investigatori di aver visto nei giorni precedenti la scomparsa una Fiat 128 di colore scuro. Avrebbe stazionato da quelle parti a più riprese e all’interno ci sarebbero stati tre uomini. Il caso resta un enigma, nessun movente, nessuna pista.
Il 1 marzo del 2002 dopo quasi vent’anni è stato riaperto il caso Polvani. Angelo Alboino, stanco e invecchiato, è ritornato in un’ aula di giustizia, dopo anni di carcere in Germania (il dibattimento per l’omicidio Polvani per lui era ancora  aperto e cominciato in ritardo perché  dopo la rapina in terra tedesca, la Germania  aveva preteso che il «pilastrino» scontasse da loro  la pena prima di concedere l’ estradizione),  per rispondere di un delitto del novembre dell’ 83, quello di Leonarda Polvani. Il caso si era risolto con l’assoluzione in appello  degli altri due imputati, Moreno Pesci e Carmelo Lopes, ma la novità è che dopo 18 anni da uno dei delitti più misteriosi di Bologna, che venne considerato uno dei delitti del Dams (per il fatto che la Polvani era stata iscritta all’ istituto universitario di musica e spettacolo) la Corte di Assise di Appello, acconsentendo alle richieste del procuratore generale Ezio Roi, decise  di far effettuare una perizia del Dna sui reperti ancora non distrutti relativi al delitto. La tecnica più moderna dunque si insinuava in un processo che fino ad allora  non era riuscito con gli strumenti classici a fare luce sui moventi e sui responsabili della morte della giovane. Un aiuto dalla scienza e dalla tecnologia per tentare di arrivare là dove si erano dovuti arrendere gli investigatori «tradizionali». L’ analisi veniva assegnata quella stessa mattina dell’ udienza ai  carabinieri del Raggruppamento Investigazioni Scientifiche e effettuata su una corda trovata attorno al collo della Polvani, i suoi vestiti e una tronchese trovata nelle vicinanze del cadavere. Alla prova non si opponevano  gli avvocati Mario Giulio Leone e Manrico Bonetti, che rappresentavano la famiglia della vittima e Gianni Correggiari, che difendeva Alboino e che sosteveva  la sua assoluta innocenza.
Oltre alla prova del Dna i legali delle parti civili avrebbero voluto l’ammissione testimoniale dell’ ex carabiniere Fernando Missere, che venne espulso dall’ Arma dopo essere stato arrestato per avere commesso delle rapine. Missere all’epoca dell’omicidio era entrato in contatto con un certo Pietro Montaquila, che gestiva un locale chiamato Macrillo, nei pressi della Questura. Missere sosteneva che, qualche giorno dopo il delitto, Montaquila lo aveva avvicinato nel locale per dirgli alcune cose relative alla sparizione della Polvani. Montaquila secondo Missere, che a quei tempi era considerato un carabiniere corretto affermò che la sera della morte della Polvani un amico gli aveva riferito di aver visto un’ auto fuori della cava della morte, guidata da un uomo che stranamente assomigliava proprio a lui, a Montaquila. Cioè, Montaquila nel descrivere quell’ uomo descrive in realtà se stesso. Una storia stranissima, ancor più alla luce del fatto che Missere si  rivelò poi  essere in realtà un rapinatore.  (Da Repubblica, marzo 2002) Depistaggi, prove del Dna, rapine, quali gli esiti di questa intricata trama?!
L’esame peritale evidenziò solo tracce di sangue femminile. Sul corpo e sugli oggetti della ragazza, nessun altro Dna.
In un articolo di Paola Cascella uscito su Repubblica il 24 maggio 2002 si legge: «Sapevamo che forse anche l’ ultimo imputato sarebbe stato scagionato. Ma da parti civili abbiamo voluto partecipare al processo come angeli custodi, come tutori della memoria di Leonarda. Noi siamo stati la voce muta di chi non può più dire nulla». C’ è un fondo di tristezza nelle parole dell’ avvocato Mario Giulio Leone che parla anche a nome del collega Manrico Bonetti: l’ omicidio della disegnatrice di gioielli Leonarda Polvani è senza colpevoli. Ieri, dopo 19 anni, anche Angelo Alboino, uno dei protagonisti della malavita bolognese degli anni ’80, è stato assolto. Alboino torna in cella, deve scontare ancora sette anni per varie rapine. Un cumulo di pena che il suo avvocato Gianni Correggiari tenterà di far accorciare con una richiesta di appello tardivo. «Ma non volevamo in carcere un innocente – dice Leone – . Il nostro unico obiettivo è che le motivazioni di questa sentenza recepiscano un principio fondamentale: se c’ è stata una una vittima massacrata, torturata, sovrastata dai suoi assassini quella è Leonarda Polvani, una persona dalla vita semplice, trasparente come una lastra di cristallo. Vogliamo soltanto che i giudici ci diano atto di questo».
Ad oggi nessun colpelvole, nessun sospettato, solo una certezza, Lea Polvani è stata uccisa e nessuno sa ancora il perchè.
Wilma Ciocci   Alessandra Severi 
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Simonetta Cesaroni: il delitto di via Poma giallo ancora irrisolto


 Sono passati 26 anni dall’uccisione di Simonetta Cesaroni, uno dei delitti più famosi e controversi della cronaca italiana. La sera del 7 agosto del 1990, a Roma, in via Poma 2, all’interno dell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, viene trovato il cadavere di Simonetta, 21 anni. ll suo  corpo giace supino,  seminudo,  con   le gambe divaricate, senza mutandine, il reggiseno sollevato, trafitto con 29 colpi di arma bianca al volto, alla gola al tronco e al basso ventre. Sul seno sinistro ha un morso. Per il medico legale non ha subito violenza sessuale. Ad uccidere Simonetta è stato un forte trauma alla testa. Non ci sono segni di scasso alla porta,  o Simonetta conosceva il suo assassino o questi aveva le chiavi.  Nella stanza del delitto viene trovato un foglio con un pupazzetto e una scritta indecifrabile: «Ce dead ok».
Prima di fuggire l’assassino,  porta  via  i pantaloni, gli slip, la borsa e la maglietta di Simonetta e  tenta  di ripulire l’appartamento dal sangue.
Le indagini, condotte dal pm Pietro Catalani che ha affidato alla polizia gli accertamenti, ruotano subito attorno a  due  principali indagati coinvolti nell’omicidio: si trattava di Federico Valle, nipote dell’ingegnere che progettò il palazzo di via Poma e che abitava nello stesso stabile, e Pietrino Vanacore, portiere dello stesso palazzo.
Il 10 agosto  Vanacore viene fermato per una macchia ematica sospetta sui pantaloni ma il Tribunale del Riesame lo scarcera venti giorni dopo: quella macchia non ha nulla a che vedere con il sangue di Simonetta. L’8 ottobre sono noti i risultati dell’autopsia: il volto di Simonetta  presenta sei ferite e diverse ecchimosi; una ferita al collo è passata da parte a parte. Otto i tagli nella zona toracica, quattordici in quella pubico-genitale.La morte è avvenuta tra le 18 e le 18,30.
A chiamare in causa Valle è un testimone austriaco, Roland Voller, che dice di sapere chi e perché ha ucciso Simonetta.Il tedesco rivela alla Polizia che il ragazzo era in via Poma all’ora del delitto e quella sera sarebbe tornato a casa con un braccio sanguinante per una ferita. Il sospetto è che abbia ucciso Simonetta perché la ragazza era l’amante del padre Raniero. Valle sarebbe l’assassino e Vanacore il favoreggiatore che pulisce l’appartamento dopo il delitto e si impossessa degli indumenti per simulare una rapina. Ma il sangue di Federico Valle non corrisponde a quello ritrovato su una porta. Si ipotizza allora che questo sia frutto di una commistione del sangue di Valle e di quella della Cesaroni. Ma l’ipotesi non trova alcun riscontro  scientifico . Come non trova nessun riscontro scientifico la formazione cutanea del Valle sul Braccio che possa far pensare ad un cicatrice da arma da taglio. Il giovane Valle e Vanacore vengono prosciolti (rispettivamente dall’accusa di omicidio e di favoreggiamento) dal gip  Antonio Cappiello il 16 giugno del 1993, provvedimento poi confermato dalla Cassazione il 17 giugno del 1994.
Gli investigatori non si arrendono e nel 2004,  il pm Roberto Cavallone  decide di sottoporre alle analisi dei carabinieri del Ris di Parma , gli indumenti di Simonetta. E dopo 17 anni  arriva il colpo di scena!
Il 6 settembre del 2007 Raniero Busco, all’epoca del delitto fidanzato di Simonetta, viene iscritto sul registro degli indagati per omicidio volontario: stando alle analisi scientifiche, c’è compatibilità tra il suo dna e le tracce biologiche scoperte su corpetto e reggiseno della vittima. L’ iscrizione sul registro degli indagati di Brusco, come si sottolinea in ambiti giudiziari, è un atto dovuto, conseguente  all’ esito del deposito di una consulenza tecnica disposta dalla procura su alcuni reperti.
Ma le nuove tecniche investigative non sono però  in grado  di stabilire a quanto risale quella traccia di saliva. Lo stesso Brusco interrogato all’ epoca dagli investigatori, ammise di aver incontrato Simonetta il giorno prima della sua morte.La ferita trovata sul seno sinistro i Simonetta, non è riconducibile ad un morso. Lo affermano il professor Corrado Cipolla D’ Abruzzo , uno dei consulenti nominati dalla procura e in merito all’ orario della  morte , il perito ha  ribadito che Simonetta era “in vita fino alle 17.45” del 7 agosto.
Durante il processo Pietrino Vanacore si suicida il 9 marzo del 2010, lasciando un biglietto con una scritta “20 anni di sofferenze e di sospetti portano al suicidio” avrebbe dovuto deporre il prossimo 12 marzo a Roma per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, nel quale è imputato Raniero Busco.Su tutti i campioni analizzati, è stato individuato il Dna di Simonetta, sul reggiseno e corpetto c’è presenza di tracce di Dna di Brusco  e di altri due imputati.  Per i Ris di Parma,  Simonetta e Raniero si sarebbero appartati per un incontro sessuale all’ interno dell’appartamento. Brusco morde il seno di Simonetta che reagisce a malo modo. Brusco allora, avrebbe risposto prima con uno schiaffo e poi, in preda ad un raptus  incontrollabile, avrebbe massacrato la fidanzata.
Per  l’ avvocato Paolo Lori  difensore di Brusco definisce  l’impianto accusatorio  molto debole. Ma, il 26 gennaio 2011,  Busco viene condannato a 24 anni di carcere: la procura aveva chiesto l’ergastolo. Il 24 novembre 2011 comincia il processo d’assise d’appello: viene disposta una nuova perizia che smonta le conclusioni dei consulenti della procura. Caso Chiuso?  No. Anche di fronte alla sentenza il caso rimane aperto. Del resto in Italia siamo abitiuati a vedere sentenze che sono state ribaltate nei diversi gradi di giudizio. Il 23 aprile 2012 il sostituto procuratore generale Alberto Cozzella chiede la conferma della sentenza di primo grado e, in subordine, una nuova perizia «che sia degna di tale nome». Il 26 aprile la difesa sollecita l’assoluzione di Busco: «chi ha ucciso Simonetta è un mostro e Busco non lo è». Il 27 aprile,la Corte d’Assise d’Appello assolve Busco per non aver commesso il fatto. Il 26 febbraio 2014, La Corte di Cassazione ha deciso sul delitto di via Poma. Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, non è colpevole: è stato definitivamente assolto dall’accusa dell’omicidio. Il delitto di Simonetta Cesaroni rimane ancora senza colpevole.
Wilma Ciocci  Alessandra Severi 

Il crudele assassinio di Yara Gambirasio


Gli inquirenti solitamente nell’iter delle indagini per omicidio individuano un sospettato e verificano successivamente  se il suo dna può essere compatibile con quello dell’assassino.  In questo caso è avvenuto l’opposto. Inizialmente è stata individuata l’impronta genetica dell’omicida e poi è stata compiuta l’opera di investigazione per scoprire a chi appartenesse quel dna. Il super testimone di questo caso è stato proprio il  dna del soprannominato  “Ignoto 1“.  Il 26 novembre 2010, alle ore 18 e 44  Yara Gambirasio aveva terminato uno dei suoi allenamenti e lasciava  da sola il Centro Sportivo di Brembate di Sopra, in Provincia di Bergamo, che si trovava a pochi minuti a piedi da casa sua.  I genitori, non vedendola tornare, dopo circa un quarto d’ora di attesa, provarono a telefonarle, ma il cellulare era spento. Dopo vari tentativi, denunciarono la scomparsa della ragazzina di Mapello
Le prime indagini sulla scomparsa di Yara Gambirasio si concentrano su un cantiere nei pressi di Mapello, a circa 3 chilometri di distanza dalla palestra da cui era uscita Yara. La zona viene identificata attraverso l’analisi degli ultimi ripetitori a cui si era collegato il suo cellulare. Per le ricerche vengono utilizzati  i cani molecolari  per  trovare possibili tracce.
Yara Gambirasio verrà trovata morta, tre mesi dopo la scomparsa, da un passante  che si trovava nella zona di Chignolo d’Isola.
Per ironia della sorte,  a poche centinaia di metri da quello che era il centro di coordinamento delle ricerche della ragazza. Yara si trovava proprio a soli 300 metri dal Comando di Polizia Locale dell’isola Bergamasca;  quindi le forze dell’ordine e volontari della Protezione Civile avevano setacciato la provincia in cerca della ragazza, perlustrandone aree boschive, montuose, fiumi, mentre il corpo della ginnasta si trovava a poche centinaia di metri da loro.  Gli investigatori, identificano così  il corpo della vittima  che  indossa i resti dei vestiti che aveva la sera della scomparsa. Vengono dunque acquisite le immagini delle telecamere delle ditte che si trovano non lontano dal luogo del ritrovamento e d effettuati i rilevamenti da parte degli E.R.T.  gli Esperti nella ricerca delle tracce sulla scene del crimine.  L’autopsia rileverà moltissime cose sugli ultimi istanti di vita di Yara, confermerà che è stata colpita alla testa e ferita gravemente con un’arma da taglio alla gola, al torace, alla schiena e ai polsi. L’assalitore probabilmente se ne era andato prima che fosse morta e  il decesso è avvenuto meno di un’ora dopo l’esser uscita di palestra.
Il 5 dicembre 2010 con un’operazione di polizia su una nave partita da Genova verso Tangeri (Marocco),  viene arrestato Mohamed Fikri, un piastrellista di origini tunisine sospettato di essere coinvolto nella scomparsa di Yara Gambirasio. L’arresto fu disposto dopo l’analisi di una intercettazione telefonica, in cui Fikri avrebbe detto alla propria ragazza “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io”. Il nastro della telefonata fu in seguito sottoposto ad altre perizie che scoprirono un grave errore di traduzione dall’arabo: Fikri aveva detto “Allah ti prego, fai che risponda”. Il 7 dicembre fu scarcerato, ma le accuse di omicidio e occultamento di cadavere furono ritirate solo nell’inverno del 2013.
Gli esami effettuati postmortem rilevano però anche che il mostro non ha commesso un delitto perfetto. Tagliando gli slip della giovane si è provocato una ferita che ha sanguinato sui tessuti degli indumenti intimi di Yara. Quelle gocce di sangue intrappolate nelle fibre hanno resistito agli agenti atmosferici fino a che gli esperti le hanno “catturate“ riuscendo ad estrarne il dann.
18.000 persone pare si sottoposero  volontariamente al test del dna, finchè in una discoteca fu trovato un  dann simile al ceppo di quello di “Ignoto 1“. Viene ristretto così il cerchio e si risale ad uno zio del ragazzo della discoteca che risponde al nome di Giuseppe Guerinoni. Esaminando il dna  si arriva a supporre che sia proprio  lui il padre dell’assassino di Yara. Ma nessuno dei suoi figli era “Ignoto 1“. Come è possibile?! Il sig.  Guerinoni forse ha figli nati fuori dal matrimonio?! Questa domanda non può essergli fatta perchè il sig. Guerinoni è morto anni prima.
Per confrontare il suo dna con quello di “Ignoto1“ è stata utilizzata residuo di saliva  rimasta su una marca da bollo della patente dell’uomo e la coincidenza tra i dna è risultata essere del 99,87%.
La salma su disposizione dei magistrati è stata riesumata e il dato è sbalordativo 99,99999% di corrispondenza.
Dopo quattro anni di ricerche gli investigatori sono convinti di avere trovato l’amante segreta di Giuseppe Guerinoni, la quale deve avere messo al mondo un suo figlio illegittimo. Un giallo nel giallo che porta al nome di Massimo Giuseppe Bossetti.
Bossetti fu fermato ad un posto di blocco e accettò di sottoporsi all’alcoltest,  con la saliva depositata fu effettuata l’analisi del dna di colui che era già considerato essere l’assassino di Yara.
Wilma Ciocci  Alessandra Severi